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Lo sguardo e l'ombelico V ediz. 2021

Lo sguardo e l'ombelico V ediz. 2021

5^ edizione 2020
Tornare a ri-vedere


Centro Culturale Candiani - Mestre





“Affinché ogni modernità sia degna di diventare antichità, è necessario che la bellezza misteriosa che la vita umana vi mette involontariamente ne sia estratta”. C. Baudelaire ( da “Il pittore della vita moderna”)

Così cominciavo la presentazione della 4^ edizione della nostra manifestazione di incontri sulla fotografia, nei primi mesi del 2020.
Quello che non pensavamo accadesse, la perdita della socialità, la paralisi economica, un lockdown, è avvenuto.
Il tutto a causa di un evento pandemico di portata mondiale che tutti , purtroppo, conosciamo.
E ci siamo fermati.
In questo momento di timida ripresa, in una società in risveglio ma con molti timori e nuove problematiche sociale attive, questa manifestazione, prova a riprendere le fila del discorso iniziato nel 2020 e ci ridà una speranza di ritrovo per parlare di fotografia e della sua cultura, tema che ci è molto caro.
A quasi due anni di distanza (pochi mesi ci mancherebbero), riproviamo a ritrovarci e a dialogare con i grandi interpreti della fotografia italiana contemporanea.
Il tema degli incontri sarà collegato agli intenti della quarta edizione, dunque continuato e ripreso.
Nell'immagine di presentazione (gentilmente concessa da Anna di Prospero) ci ritroviamo tutto il senso di questo tempo.
Con gli occhi coperti e speranzosi di vedere qualsiasi forma di bellezza ci sia stata (temporaneamente) nascosta, pronti a rivedere dopo un attesa.
Poco importa che non abbiamo potuto vedere attorno a noi e godere del mondo per qualche lasso di tempo.
Adesso è il momento di riaprire lo sguardo e di nutrirci di quello che di bello e formativo la fotografia può regalarci.
Vi aspetto al Centro Culturale Candiani.

G. Cecchinato

9 Ottobre 2021 - William Guerrieri - Ore 17:30 - Corpi e macchine al lavoro - introduce Dionisio Gavagnin
16 ottobre 2021 - Gianantonio Battistella - Ore 17:30 - Il volo del falchetto - introduce Stefano Munarin
30 Ottobre 2021 - Paolo Ranzani - Ore 17:30 - Professione Fotografo - introduce Giovanni Cecchinato
13 Novembre 2021 - Anna Di Prospero - Ore 17:30 - La ricerca dell'io negli spazi che abitiamo - introduce Monica Mazzolini
20 novembre 2021 - Marco Introini - Ore 17:30 - Dal disegno alla fotografia - introduce Christian Mattarollo


Sponsor della manifestazione Photomarket Video



09/10/21 ore 17:30
William Guerrieri - Corpi e macchine al lavoro
Introduce l’incontro Dionisio Gavagnin


William Guerrieri (1952, Reggio Emilia). Vive a Modena. Fotografo e curatore è stato ideatore con Paolo Costantini e Guido Guidi del progetto d’indagine territoriale Linea di Confine per la Fotografia Contemporanea con sede a Rubiera, Reggio Emilia, di cui è attualmente coordinatore.
Ha curato per Linea di Confine numerose mostre e pubblicazioni fra le quali Via Emilia. Fotografie, luoghi e non luoghi 1 e 2, (Linea di Confine 1999/2000); la mostra e la pubblicazione Luoghi come paesaggi. Fotografia e committenza pubblica in Europa negli anni Novanta, (Linea di Confune, 2000). Ha inoltre curato con T. Serena, l’indagine in progress e la collana “Linea veloce Bologna-Milano” (Linea di Confine, Rubiera, 2003/2010), con F. Fabiani la mostra al MAXXI di Roma, TAV. Bologna - Milano, 2013; con A. Frongia la mostra tenuta all’Ospitale di Rubiera e la pubblicazione Red Desert Now! L’eredità di Antonioni nella fotografia italiana contemporanea, (Linea di Confine, 2017).
Ha pubblicato i saggi Photography Observation as Awareness of Place, in Photographic observation a tool for landscape policies (Ministere de l’Ecologie, de l’Energie, du Developpement durable, 2009); Attualità del documentario in Luogo e identità nella fotografia italiana contemporanea, a cura di R. Valtorta (Einaudi, 2013); Commissionig, photograpy and the crisis of territorial political rapresentation, in European photography commissions and the landscape, a cura di F. Gierstberg (ICO-Fundation, 2019).
Come fotografo ha pubblicato le monografie Oggi nessun può dirsi neutrale (Ar/Ge Kunst Edizioni, Bolzano, 1998); Zona 16 (Open Space, Milano, 1999); Where It was (Linea di Confine, 2006); Il Villaggio (Linea di Confine, 2009), The Dairy. Images for the italian countryside (Linea di Confine/ Koenig Books, 2015), New Lands (Linea di Confine, 2017), Bodies of work (Linea di Confine, 2018).




26/10/21 ore 17:30
Gianantonio Battistella - Il volo del falchetto
Introduce l’incontro Stefano Munarin


Treviso 1957, architetto, si dedica particolarmente a ricerche e studi sulla rappresentazione dell’architettura, del paesaggio e sulla sperimentazione del linguaggio fotografico.
Docente titolare di Linguaggi e Tecnica della Fotografia al Corso di Laurea in Scienze e Tecnologie Multimediali dell’Università di Udine dal 1998 al 2008 e collaboratore del prof. Italo Zannier presso l’Istituto Universitario dell’Architettura di Venezia nel corso di Storia e tecnica della fotografia e presso l’Università Ca’ Foscari di Venezia nel corso di Storia della fotografia dal 1983 al 1998.
Ha collaborato con il Dipartimento di Storia dell’Architettura del I.U.A.V., a numerose ricerche sulla fotografia italiana del XIX sec., fra le quali: Gli archivi fotografici come memoria dell’architettura eseguendo delle verifiche a campione delle vedute storiche definite Il processo del rifotografare; Gli archivi fotografici della Bibliotèque Nationale di Parigi e di altre biblioteche pubbliche, relativamente alla fotografia veneta del 19° sec.
Direttore Scientifico dell’Archivio Storico Fotografico della Provincia di Treviso (FAST) per il riordino dell’archiviazione e catalogazione dei materiali fotografici storici e contemporanei (2003 – 2004).
Dal 1991 al 2004 collabora con il “Centro di Ricerca e Archiviazione della Fotografia” di Spilimbergo, prima come docente nei corsi “Cultura della Fotografia” e poi come Direttore Scientifico dei corsi F.S.E. di “Operatore culturale in fotografia e risorse elettroniche”.
Nel 2014 ha organizzato e tenuto, presso il C.R.A.F. di Spilimbergo, il corso “Progetto e Fotografia - contributo all’uso consapevole dell’immagine fotografica nella prassi professionale” per la Formazione Professionale Continua (15 cfp) dell’Ordine degli Ingegneri e Architetti della Provincia di Pordenone.
Ha portato a termine nel 2013, una lunga collaborazione con l’Archivio Storico della Procuratoria di San Marco di Venezia per la riorganizzazione del Fondo Fotografico Ongania sulla Basilica di San Marco.
Nel 2019, sempre su incarico della Procuratoria di San Marco, ha portato a termine il riordino, la digitalizzazione e restauro digitale dell’archivio fotografico storico dei restauri della Basilica di San Marco, costituito da oltre 4300 negativi in vetro databili dalla fine dell’800 ai primi decenni del ‘900.
Dal 2004 al 2006 ha collaborato con il Centro Internazionale Studi Architettura Andrea Palladio di Vicenza nell’ambito del progetto Fototeca Carlo Scarpa con la realizzazione di una campagna fotografica sulle architetture scarpiane e, successivamente, realizza nel 2013, la campagna fotografica per il volume
L’immagine del Veneto – Un progetto di documentazione delle eccellenze architettoniche della regione del Palladio – L’età romana e tardoantica.
Nel 2015 ha realizzato la rassegna Fotografia e Contemporaneità, nel programma di Friuli Venezia Giulia Fotografia 2015, in qualità di curatore della mostra e del catalogo e nel 2016-2017 cura il programma delle mostre sulla fotografia contemporanea alla Galleria SP3 di Treviso.
Ha partecipato a numerosi progetti di rilievo fotografico del territorio pubblicando i suoi lavori in numerosi libri, cataloghi e riviste, fra i quali: Enciclopedia di urbanistica, Franco Angeli, Milano 1984; Disegni e Industria della Marca (a cura di M. Brusatin) S.I.T., Treviso 1985; G. Cristinelli, Cannaregio, Officina, Roma 1987; Città murate del Veneto (a cura di S. Bortolami), Pizzi, Milano 1988; Documenti di architettura rurale della Marca Trevigiana, Acelum, Asolo 1989; Il paesaggio costruito della Valsana (a cura di M. Brusatin), Acelum, Asolo 1989; I. Zannier, Architettura e fotografia, Laterza, Bari 1991; Fotologia, Alinari, Firenze (dal 1985 al 2003); Coltelli a Maniago, un racconto per immagini, Città di Maniago, Maniago 2006; Carlo Scarpa: Atlante delle architetture, Marsilio-Regione Veneto, Venezia 2006; Il furore delle immagini, Marsilio, Venezia 2010; Storia dell'architettura nel Veneto. L’età romana e tardoantica, Marsilio-Regione Veneto, Venezia 2013.
Ha partecipato a numerose rassegne di fotografia e arte contemporanea, fra le quali: La sperimentazione fotografica in Italia 1930-80 (1983), Viaggio in Italia (1984), L’insistenza dello sguardo-Fotografie italiane 1839-1989 (1989), Archivio dello Spazio (1991-93-96), Carlo Scarpa nella fotografia (2004); Biennale di Venezia, Padiglione Italia (2011 e 2013).
Sue fotografie sono conservate in collezioni pubbliche e private, nazionali ed internazionali fra le quali: Centro di Ricerca e Archiviazione della Fotografia (Spilimbergo, UD); Museo della Fotografia Contemporanea (Milano), Canadian Centre for Architecture (CCA), Montreal.
Nel 1993 gli viene conferito il premio Color Photography Awards al Photographic Resource Center, Boston University. Nel 1996 gli viene conferito il premio Friuli- Venezia Giulia Fotografia.
Alcune sue fotografie sono state esposte al Metropolitan Museum of Art di New York a corollario della mostra Venetian Glass by Carlo Scarpa (nov. 2013 - mar. 2014).




30/10/21 ore 17:30
Paolo Ranzani - Professione Fotografo


Fotografo ritrattista. Venti anni di esperienza nella fotografia di “people” spaziando dal ritratto per celebrity, beauty, adv e mantenendo sempre uno sguardo al reportage sociale.
Ha coordinato il dipartimento di fotografia dell'Istituto Europeo di Design ed è docente di Educazione al linguaggio fotografico presso la RM Moda e design di Milano.
Il suo portfolio comprende lavori autoriali e commerciali per FIAT, Iveco, Lavazza, Chicco, Oréal e la pubblicazione di quattro libri fotografici: “Ecce Femina” (2000), “99 per Amnesty” (2003),
“La Soglia. Vita, carcere e teatro” (premio reportage Orvieto Prof. Photography Awards 2005), “Go 4 it/ Universiadi 2007”.
Ha curato l'immagine per vari personaggi dello spettacolo, Arturo Brachetti, Luciana Littizzetto, Fernanda Lessa, Antonella Elia, Neja, Eiffel65, Marco Berry, Levante ...
Negli ultimi anni ha spostato la sua creatività anche alle riprese video, sia come regista che come direttore della fotografia, uno dei suoi lavori più premiati è il videoclip “Alfonso” della cantautrice Levante (oltre otto milioni di visualizzazioni).
Paolo Ranzani è referente artistico 4k in merito al progetto “TORINO MOSAICO” del collettivo “DeadPhotoWorking”, progetto scelto per inaugurare “Luci d'Artista” a Torino.
Nel 2019 il lavoro fotografico sul teatro in carcere è stato ospite di Matera Capitale della Cultura.
Pubblicati e mostre:
“Ecce Femina” (2000),
“99 per Amnesty” (2003),
“La Soglia. Vita, carcere e teatro” (premio reportage Orvieto Prof. Photography Awards 2005), “Go 4 you/Universiadi 2007” ,
Premio 2005 per il ciack award fotografo di scena Premio 2007 fotografia creativa TAU VISUAL
Premio 2009 come miglior fotografo creativo editoriale
Ideatore e organizzatore del concorso fotografico internazionale OPEN PICS per il Salone del Libro di Torino – 2004
Scrive di fotografia per vari magazine in collaborazione fissa per CineSudFotoMagazine “Ap/Punti di vista” e “Storie di Fotografia”




13/11/21 ore 17:30
Anna Di Prospero - Una ricerca dell’io negli spazi che abitiamo
Introduce Monica Mazzolini


Anna di Prospero nasce a Roma nel 1987.

Ha studiato fotografia presso l’Istituto Europeo di Design a Roma e presso la School of Visual Arts di New York.

La sua ricerca fotografica si caratterizza per il segno introspettivo con cui esplora la quotidianità e il rapporto tra uomo e spazio. Il suo lavoro è stato esposto in numerose mostre personali e collettive in Italia e Stati Uniti, tra cui Les Rencontres D’Arles, Month of Photography Los Angeles, La Triennale di Milano e il Palazzo delle Esposizioni di Roma.

Tra i suoi riconoscimenti il Sony World Photography nella categoria Portraiture, il People Photographer of the Year degli International Photography Awards e il Discovery of the Year dei Lucie Awards 2011.




20/11/21 ore 17:30
Marco Introini - Dal disegno alla fotografia
Introduce Christian Mattarollo


Laureato in architettura presso il Politecnico di Milano.
Fotografo documentarista di paesaggio e architettura, è docente di Tecniche della rappresentazione dello spazio presso il Politecnico di Milano e di Fotografia dell’architettura presso la scuola di fotografia Bauer. Inserito nei venti fotografi di architettura protagonisti degli ultimi dieci anni da Letizia Gagliardi in La Misura dello Spazio (Contrasto 2010). Nel 2015 ha documentato l’architettura dal dopoguerra ad oggi in Lombardia per la Regione e MIBACT, viene invitato da OIGO (Osservatorio Internazionale sulle Grandi Opere) alla campagna fotografica sulla Calabria, The Third Island. Il progetto Milano Illuminista, viene selezionato dal Fondo Malerba per la Fotografia. Nel 2016 ha esposto Ritratti di Monumenti al Museo d’Arte Moderna MAGA; partecipa alla XXI Triennale con Warm Modernity_Indian Paradigm (curato da Maddalena d’Alfonso) che, con omonimo libro, ha vinto il RedDot Award 2016. Nel 2018 è stato impegnato nei progetti: Mantova, architetture dal XII secolo al XX secolo (Politecnico di Milano);Ormea: segni del paesaggio per il progetto Nasagonado Art Project, e con Francesco Radino Gli scali ferroviari di Milano per la Fondazione AEM. Nel 2019 è stato invitato alla residenza d’artista Bocs Art Cosenza e nello stesso anno è stato invitato ha realizzare un progetto fotografico sulle Repubbliche marinare per la biennale di Architettura di Pisa curata da Alfonso Femia.
Le sue opere sono conservate alla Fondazione MAXXI, CSAC, Museo MAGA, Fondazione AEM.





Tutti i testi e le foto sono protette da copyright.
E' vietato ogni utilizzo o riproduzione anche parziale non espressamente autorizzato dall'autore.
Giovanni Cecchinato Fotografo - All rights reserved - © 2021

La fotografia di cantiere

La fotografia di cantiere a Venezia
Una parte importante nella documentazione di un lavoro di edilizia.




La logica vuole che prima di un edificio ci stato qualcos’altro.
O il niente.
O un altro manufatto.
Sempre per logica, una costruzione finita, o una ristrutturazione, passano attraverso una fase spesso dimenticata e temporanea che è il cantiere.

Mi ha incuriosito una definizione di cantiere, trovata in un volume fotografico interessante:

“Siamo abituati, per distratta consuetudine, a considerare il cantiere edile come la necessaria preparazione per qualcos’altro, la fase transitoria verso lo stadio di completamento dell’opera, il periodo di caos necessario e preliminare rispetto alla realizzazione, come se l’edificio finito dovesse essere il risultato inevitabile e predeterminato dei passaggi precedenti. Ciò naturalmente non è del tutto vero.”

Il libro è “Cantiere d’autore” ed in queste parole, Pio Baldi, presidente della Fondazione MAXXI, centra il punto non solo nella costruzione del fantastico museo di Roma, opera dell’architetto Zaha Hadid, ma su tutti i mille piccoli cantieri che danno vita a qualcosa che poi verrà abitato.

In realtà come quella di Venezia, il “cantiere” è di vitale importanza.

In questa città che si sviluppa attorno al X e XI secolo che diventerà poi una delle maggiori potenze del Mediterraneo, la costruzione di edifici, palazzi, abitazioni, oltre che ad essere innovativa e peculiare, muta nel trascorrere del tempo, adeguandosi alle rinnovate necessità della città.
Bastano un paio di cose per capire i presupposti costruttivi temibili e difficili: le case non hanno le fondamenta (per come le conosciamo classicamente) e sono perennemente immerse nell’acqua.
Eppure, hanno resistito e continuano a farlo da centinaia d’anni. Combattendo il madido e la più temibile salinità capace di sgretolare i muri più forti. Nei secoli una sapienza edile si è tramandata e per operare in un contesto così fragile e delicato ci vuole anche una buona abilità ed una competenza enorme.

Da tempo seguo le operazioni di cantiere di una azienda che opera in questi termini e che crede fortemente nel valore della storia nella ristrutturazione di un edificio. Azienda che segue i dettami originali delle costruzioni veneziane e nel ristrutturarle li adeguano alle normative e ad i materiali di costruzione attuali.

Soprattutto oggi dove case in contesti d’effetto, all’interno di una delle città più visitate d’Italia, diventano di nuovo abitabili e usufruibili, sia temporaneamente che stabilmente con i dettami imposti dalla legge e con il rispetto per il preesistente.
Ma la stessa azienda crede anche fortemente nella documentazione di quell’atto transitorio e di metamorfosi che è il cantiere.
Poiché, e qui ritorna la logica iniziale è destinato ad essere inglobato nell’attuale.

Ecco, allora, che entra in gioco anche un altra variante che è quella della fotografia.
Ed il fotografo deve diventare un traduttore che permetta di interpretare il prima, il durante, il dopo.
Ecco l’importanza del “com’era”, del “come abbiamo operato”, il tutto tradotto da una attività fotografica che permetta di capirlo.



Un tetto incendiato viene smantellato e ricostruito. Visibili i segni della costruzione delle travi con attrezzi manuali che hanno dato forma alla trave stessa. La capriata si chiamava a “un monaco” che individuava i travi verticali che la componevano. Si vede chiaramente la “spiza” ed il “pecà” i punti di appoggio delle singole travi incavate nel legno. Nonostante il calore sopportato le travi fanno ancora i loro dovere.




A parte vengono tenuti tutti i “copi” originali che rivestivano il tetto.





Un altro esempio di creazione di un muro a “scorzoni” che serviva per costruire dei muri non portanti.



Il rifacimento di un appartamento che si affaccia su Santa Maria del Giglio






Un esempio di ristrutturazione prima/dopo di un appartamento vicino a San Marcuola.




Nel produrre i miei lavori fotografici di architettura e cantieristica, uso una macchina tecnica Arca Swiss Rm3di con uno Schneider 5,6/35 XL Apo-Digitar, che mi restituisce una visuale di 102° ed un cerchio d’immagine di 90mm, a f11. Il dorso digitale applicato è un PhaseOne IQ160. Per garantire una massima efficenza utilizzo Capture One 11 per il trattamento dei file RAW, garantendo così, alla mia clientela, una qualità sopra alla norma.




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Un piccolo resoconto sulla Fujifilm GSX 50R

FUJIFILM GSX 50R



Ciao,
visto che in alcuni di voi è sorta la curiosità in merito alle performances di questa macchina fotografica, sorella del modello GSX50S, vi posso indicare alcune mie piccole riflessioni in merito, esenti da giudizi di parte, dopo questi primi giorni di utilizzo di un modello datomi in test (FUJIFILM GFX 50R con obiettivo GF 23mm f4) ed in attesa della mia macchina ufficiale. Sicuramente sul web potrete trovare articoli tecnici e recensioni abbastanza accurate su questo modello.

Prima di tutto sgombero il campo dal concetto “medio formato” perché non possiamo realmente parlarne, se non per via di una iniziativa di marketing pubblicitario.
Da possessore di sistemi Phase One, lo dico con cognizione di causa.



Il sensore si trova in una fascia intermedia tra il “full frame” di molte ammiraglie blasonate ed il sistema delle due leader di mercato Hasselblad e Phase One.
Il che comunque, come sappiamo bene, fa buon gioco e se le “dimensioni contano” sopratutto quelle del fotodiodo che cattura la luce, ci accorgiamo della differenza sopratutto nei passaggi tonali.
E posso dire che confrontando con la mia Canon 5D Mark IV “full frame”, ne ho avuto la certezzal. In una sessione di lavoro effettivo, ho potuto notare, non tanto nella definizione o nella struttura dell'immagine, (che possiamo definire "quasi" alla pari tra le due, visto anche l'utilizzo del 24mm TS/E II nella Canon che è una lente eccezionale) tanto quanto la gestione del colore e la resa tonale più morbida ed omogenea, sicuramente più realistica; insisto e mi ripeto ... “una più morbida transizione nel passaggio toni".

La FUJIFILM 50R è dotata di un sensore CMOS da 51,4 MP e di un processore X-Processor Pro. Questo implica che se però noi usiamo delle schede poco performanti, viene vanificata tutta la velocità di elaborazione e di scatto. L'otturatore a tendina è stato sviluppato specificamente per questa fotocamera e assicura una velocità massima di 1/4000s (1/16000s con l'otturatore elettronico), una velocità di sincro flash di 1/125 sec o inferiore, alte prestazioni e una lunga durata, con una resistenza dell'otturatore fino a 150.000 scatti*, assicurando al contempo ridotte vibrazione e un funzionamento silenzioso. Questo è il primo modello del sistema GFX a supportare la tecnologia a basso consumo energetico Bluetooth®. Le immagini scattate possono essere trasferite in modo semplice e rapido a smartphone e tablet accoppiati con la fotocamera tramite l’app FUJIFILM Camera Remote, diventando veramente comodo.
Una delle cose interessanti è la misurazione TTL 256 zone, con modalità Multi / Spot / Media / Media pesata al centro
La compensazione dell’esposizione si muove da -5,0 EV a +5,0 EV a intervalli di 1/3 EV, meglio dei soliti 3 stop ed è presente una comoda funzione di intervallometro.
Il mirino OLED a colori 0,5" ca. e da 3,69 milioni di punti, dà una buona visibilità in merito, che però implica di avere sempre la macchina accesa con le ovvie richieste di energia.
Sono presenti 15 modalità di sviluppo JPG (PROVIA / Standard, Velvia / Vivid, ASTIA / Soft, CLASSIC CHROME, PRO Neg.Hi, PRO Neg.Std, Black& White, Black& White+Ye Filter, Black& White+R Filter, Black& White+GFilter, Sepia, ACROS, ACROS+Ye Filter, ACROS+R Filter, ACROS+G Filter) ma al sottoscritto che lavora sempre in Raw non può che interessare in minima parte.

Grande cosa è che la macchina è 160,7mm (largh.) x 96,5mm (alt.) x 66,4mm (prof.) in misure ma sopratutto è poco meno di 800 gr. di peso, il che fornisce una buona trasportabilità, senza grandi pesi ed ingombri. Basta una normale sacca a tracolla. Nella mia Greenland ci stava anche una datata ma stupenda Hasselblad SWC/M, giusto per dirvi.



Ora, un lato poco positivo è che la velocità di scatto non rappresenta una grande attrattiva, ma per chi come me veniva da Hasselblad sistema H, non è di certo una novità e ci si adegua immediatamente.
Alla fine la cosa importante è di sicuro come si vanno a trattare i dati Raw e con che software. Io uso Capture One nella vers. 11, come molti di voi già sapranno, ed i file Fuji sono gestibili in maniera molto dinamica e produttiva.

Qui vi allego un mio scatto di test, fatto sul Col Visentin sul Nevegal (BL) in pieno controluce e con abbondanti aree in ombra, il sole è in campo e lo si vede in alto a destra.






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GOBE Filters

date » 26-10-2018

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tags » GOBE, filters, filtri, polarizzatore, UV, tecnica, etica, alberi, trees, fotografia, australia, consigli,

GOBE Filters.



Come in accordo e accennato su FB, mi permetto di scrivere questo articolo sul mio ultimo acquisto di filtri per obiettivi.
Perché mai direte voi?



Perché la comunicazione dell’azienda che li produce è davvero singolare ed etica.
Per ogni prodotto acquistato da GOBE, azienda con sede in Australia, viene garantita una cinquina di alberi piantati in Madagascar o Haiti o Nepal. Guardate QUI
La cosa mi è piaciuta e penso dovrebbe essere diffusa come modalità di commercio.
Dunque mi sono registrato al sito e poiché da tempo dovevo acquistare dei polarizzatori e dei filtri anti UV per due obiettivi (e rimandavo l’acquisto per via della spesa), ho trovato questa opportunità e ne sono rimasto colpito.

Bando alle ciance ho acquistato il necessario e dopo due giorni avevo tutto il materiale a casa.

Innanzitutto devo dire che i prodotti venduti si dividono in tre categoria: entry mid e top.


Io mi sono indirizzato subito alla zona top poiché costruiti in 16 strati di pellicola multiresistente dalla tedesca SHOTT, e la cosa mi rassicurava molto.

Devo inoltre dire che il costo di 4 lenti: due UV e due polarizzatori (in misure 52mm e 82mm), ha coperto l’acquisto di un solo polarizzatore di una delle marche più blasonate.

Gli imballi sono funzionali e protettivi, costruiti con carta riciclata e non vi è traccia di plastica alcuna.


Gli stessi tappi di chiusura sono in alluminio e filettati così da essere usati come protezione e scatola allo stesso tempo. Potrei anzi consigliare di usarli come tappi di protezione degli obiettivi stessi, lasciando a casa quelli di plastica.


Con il pacchetto del kit che contiene un filtro uV ed un polarizzatore, arriva anche un codice con il quale andare nel sito di GOBE e iscriversi al programma di impianto dei germogli.


Mi sono subito dopo rivolto all’opportuna pulizia delle lenti, che raccomando vivamente a tutti prima di installarli, con l’aiuto di un panno antistatico e l’indispensabile pompetta della Hama.

Poi mi sono apprestato a fare qualche scatto di prova sopratutto per il timore che l’effetto polarizzante fosse poco visibile. Come mi successe tempo addietro con altri polarizzatori a basso costo.


Invece il risultato è stato molto buono sopratutto in termini di neutralità dei colori (non accade che virino durante la rotazione) ed unica nota in merito è la non proprio fluida rotazione dei due vetri. Un pò scattosa. Penso sia dovuto al probabile attrito dell’alluminio tra le due lastre. Ma è cosa di poco conto, che presumo si affievolisca nel tempo dopo un po di rotazioni.


Qui sotto vi posto due immagini di test fatte al volo con la Canon 5D MKIV ed un obiettivo Canon TS-EII al quale ho applicato il filtro UV e quello polarizzatore della GOBE. E' bene evidente l'effetto polarizzante anche se la foto non è molto contrastata ed è scattata con +0,6 di correzione sull'esposizione, per evidenziare l'effetto sul riflesso.
PS giusto per ricordare che l'effetto polarizzante è l'unico che non può essere replicato in postproduzione. Deve essere per forza gestito fisicamente al momento dello scatto.




Che dire, intanto date un occhio al sito e verificate il tutto.
Io resto a vostra disposizione se avrete qualche domanda in merito.
QUI il sito GOBE.



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Progetto "Ipogei di Ventotene" Aprile 2018

date » 24-04-2018 14:10

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tags » ventotene, speleologia, fotografia, grotte, arte, giovanni cecchinato, grana, isola, pontine, Roma, Lazio, archeologia,

Al venerdì prendiamo la strada di Formia, insieme a Steve ed a Maurizio, il nostro riferimento speleologico.
Maurizio è colui che ha scoperto le cavità che andremo a documentare. Grazie all’unione delle idee e delle conoscenze tra Maurizio e Steve nasce questo progetto che l’Amministrazione dell’isola di Ventotene ha preso in considerazione.
La macchina corre verso sud, ma la musica di Steve si lancia più a sud-est.
L’aliscafo alle 3 del pomeriggio ci porta velocemente verso Ventotene, ormeggiamo dopo circa un ora e subito dopo cominciamo a smistarci nei rispettivi alloggi.
Verso le 5 andiamo a piedi verso il sito ad effettuare una perlustrazione.
La situazione non è pericolosa ma neanche tanto sicura, non è semplice e non è veloce.
Sopra ai due ipogei è stata costruita una casa, le cui sporgenze sono precarie.





L’enorme buco antistante all'abitazione permette di individuare tre aperture; la centrale, quella più grande, è di sicuro il condotto di aerazione, la più piccola quello che resta del punto di accesso.
Passiamo parte del tempo a cercare di capire come organizzarci tra i due gruppi di lavoro; io e Steve cercheremo di fotografare (nel buio) ; Marco, Ilaria e Anna tenteranno di portare giù un laser-scan e creeranno, tramite dei target di riferimento, una visione matematica delle due cavità.
Il giorno dopo ci si alza presto e alle 8 si è già operativi e pronti ad andare nel luogo definito.
Maurizio prepara gli imbraghi e non senza qualche difficoltà ci caliamo fino al livello base di entrata dove poi verranno calate anche tutte le attrezzature.



I ragazzi del rilevamento laser arrivano, l’adrenalina sale e fa dimenticare ogni problema e, decisi, ci apprestiamo a scendere.
Vado avanti io, in avanscoperta e mi calo per primo nel pertugio di entrata.
E’ ostruito da una piccola frana, il che mi crea qualche difficoltà.
Ma dopo un po di lavoro sgomberiamo il passaggio.




Arrivo fino al confluire delle due cavità e lo spettacolo che mi trovo davanti non è dei più edificanti.
Data l’altezza delle due cavità di circa 5/6 mt, che si dipartono dall’ingresso come in una “L”, una montagna di rifiuti arriva quasi fino al soffitto e scende in forma conica verso i pavimenti, per forse 10 mt.
Probabilmente per un periodo, non proprio corto, di anni, si è gettato a dismisura in quel buco di tutto.
Nessuno ha mai riferito di nulla.





Il mio problema fotografico sarà quello di isolare quello che rimane libero dai rifiuti e dovrà permettere una identificazione del luogo.
Dovrò cercare di produrre una buona immagine, aiutato dalla luce di un faretto da 1000w, assoggettato però alla mancanza di corrente, che va’ e viene.
Ma se la fotografia è l’arte del risolvere, in questo frangente se ne avrà la più palese dimostrazione.
Mi sono velocemente accorto che tutta la ricerca iconografica fatta in queste ultime settimane può altrettanto velocemente essere dimenticata.
Dunque, forte concentrazione sul come si potesse portare a casa il minimo indispensabile.
Definiti i punti di interesse ci siamo messi al lavoro e nel giro di un paio d’ore siamo riusciti a definire qualcosa, nella prima zona di lavoro, mentre Marco (l'ingegnere del laser-scan) lavora nell’altra.
Fatta una pausa all’aria aperta ci sostituiamo di posizioni e mi appresto a fotografare li dove i segni della lavorazione della grotta si fanno più evidenti.



Arrivato il tardo pomeriggio, completati tutti i doveri siamo usciti "a riveder le stelle".
Aspetto di non poco conto che rallegra di colpo tutti è la cena in serata al “Giardino”, noto locale dell'isola.

Tecnicamente l’esame fotografico l’ho intrapreso definendo tre punti di ripresa nei quali ho usato la mia Arca Swiss con un dorso Phase One IQ160, messa su cavalletto.
Ho ottenuto delle immagini con una risoluzione di 8900x6700 px c/a utilizzabili a 300 dpi per una base di stampa di 76x57 cm (teorico negativo di base). Ho lavorato cercando di restare nella zona dei 400 ISO e con diaframma chiuso a F16.
Negli altri approcci, quelli della ricerca dei dettagli, ho utilizzato la mia Leica M 262 ed ho lavorato a mano libera cercando le particolarità di lavorazione delle cavità facendomi aiutare con un faretto alogeno da 1000w.

Qui la galleria con il lavoro prodotto.

Spero il piccolo resoconto possa essere di aiuto e mi auguro che questo progetto sia di ampio respiro e porti a dei risultati positivi e alla definizione del progetto finale.
Vi prego di scusarmi per la scarsa bravura nello redigere questo piccolo racconto.


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La fotografia del territorio e Insta-Mestre





Ciao a tutti,
inizio oggi questa rubrica, che si occuperà di fotografia, non per quella che può essere una considerazione generale o di massa, ma visto che devo cercare di parlarne io, per quella che è la mia ventennale esperienza professionale e la mia continua e mai finita (mai finirà), curiosità culturale e passione per questo ambiente. Mi scuso in anticipo però, per la mia, forse non precisa, maniera di scrivere.

Comincerò questo primo articolo, parlando di un progetto a me caro, poiché riguarda la nostra città, Mestre.
Risulta anche abbastanza adeguato con il tema del gruppo “Mestre Mia”, visto che nel tempo ho avuto modo di sviluppare più di un progetto di analisi fotografica sul territorio urbano della città che assieme viviamo.

Parto parlandovi di un mio grandissimo interesse che nacque dalla visione delle fotografie di un grande maestro quale era Gabriele Basilico nel 2001, proprio su di Mestre, che mi stupì profondamente poiché mi consegnava una visione della nostra città molto precisa e analitica.
Quel lavoro ha evidenziato degli aspetti peculiari di Mestre nel 2001, magari più “banali” all’occhio del suo abitante, ma proprio perché “non giudicati importanti” di conseguenza ”non osservati” riemergevano prepotenti nelle foto di Gabriele Basilico e poichè “visti” reclamavano giustizia ed interesse.

Ecco che nel corso degli anni una maggiore consapevolezza visiva e tecnica, ed il ricordo di quell’esposizione, mi ha fatto approcciare e delineare un progetto che mi ha permesso di documentare la nostra città non solo per come la sento io ma per come può essere rilevante ma, penso, “utile” documentarla.



Però prima di parlare di ciò, vi inoltro su alcuni minimi dettagli storici che rappresentano l’origine di questo tipo di fotografia, chiamata “Fotografia di territorio” o come usano definirla oltreoceano “New Topographics - A man altered landscape” (il nome prende origine da una grande mostra a proposito della mutazione dei territori americani dal dopoguerra in poi, fatta negli anni ’70).
Infatti, se pensiamo allo sviluppo industriale del secolo scorso ed il suo successivo passaggio al post-industrale, pensiamo anche alle estreme conseguenze patite dal secolare processo della natura che diventava così schiavo di una progressiva artificializzazione del mondo e dei suoi paesaggi.
A differenza dei secoli passati il processo romantico (tipico del ‘700 e ’800) tra il “paesaggio costruito” ed il “paesaggio naturale”, è lentamente sparito lasciando lo scettro a dei mutamenti radicali nel segno del caos.

Necessitava e diventava vitale in quegli anni, documentarlo con il mezzo più immediato ed utile, la fotografia.

Ecco che allora, anche in Italia la “fotografia di territorio” che ben accetta dunque l’idea della “New Topographics”, ha cominciato ad occuparsi di descrivere le mutazioni dei paesaggi e le metamorfosi che hanno portato gli stessi ad evolversi da grandi spazi agresti a spazi urbanizzati.
Nasce e si aggrega in quel periodo un nucleo di capiscuola che hanno fatto della loro visione dei territori, un tratto distintivo in un crescente mare di immagini fotografiche.
Parlo di Luigi Ghirri, Arturo Quintavalle, Mimmo Jodice, Gabriele Basilico, William Guerrieri, Guido Guidi, Olivo Barbieri, Giovanni Chiaramonte, Vincenzo Castella, Francesco Radino, e molti, molti altri, magari poco conosciuti al grande pubblico, ma che diventeranno importantissimi ai giorni nostri per i lavori fotografici eseguiti in quegli anni.

Questi grandi “prelevatori di immagini” che si apponevano ai colleghi americani, (ricordo solo i miei prediletti quali Stephen Shore, Lewis Baltz ed Walker Evans senza però dimenticare la scuola europea di Dusseldorf con i coniugi Becher) hanno creato un Atlante di un’Italia in fase sia di espansione urbana che di modifica stravolgente dei suoi paesaggi.
Nel contempo hanno documentato tutti i risvolti positivi e negativi di questa metamorfosi, con linguaggi fotografici che spesso sfioravano la poesia, come nel caso di Luigi Ghirri.
Partendo dalla visione di Italia del dopoguerra in pieno sviluppo economico, per arrivare ai giorni nostri.
Ne parla molto Roberta Valtorta in un suo bellissimo libro che si chiama “Luogo ed Identità nella fotografia italiana contemporanea” per cui rimando gli interessati a questo volume di rara precisione, dedicato sicuramente ad un lettore competente.

Perché vi parlo di ciò? Perché quando parliamo di “fotografia di un territorio”, dobbiamo partire da dei presupposti ben precisi, che non sono il semplice fotografare qualcosa, ma il relazionarsi con il nostro “sguardo verso la città”, con il nostro luogo, e razionalizzare la nostra visione al fine di creare il nostro racconto dei posti, così come suggerito e concretizzato da tutta la fascia dei fotografi della “New Topographics” .
Cercando di capirne i tratti distintivi con attenzione e pazienza, e basandoci sulla “sua storia”.
Gabriele Basilico usava dire che bisognava avere uno “sguardo lento”, io aggiungo (ma non sono il solo) che bisogna avere uno “sguardo progettuale e acculturato”, inteso a raccontare non la parte “fenomenale” ma bensì la parte più “anonima” e “quotidiana” dei luoghi per raccontare al meglio la “medietà” del vivere moderno.
Non tramite il “guardare di più” ma il “guardare meglio”.
Non a caso le periferie e gli aggregati cementizi rappresentano al meglio le “città medie” dove abitiamo.
E dopo tutto, Mestre rappresenta l’archetipo della “città media” del tri-veneto.



Passati i tempi della “fotografia emozionale” o della “fotografia dell’attimo” (escluso il “reportage fotografico” nel senso più stretto del termine) , perchè oramai inflazionati e ridondanti nel bacino di deposito delle immagini che troviamo nel web, la “fotografia documentaria del territorio” rimane un importante tema nel descrivere i tempi ma sopratutto i luoghi dove l’umanità vive.
Rendendo così possibile una analisi dell’evoluzione abitativa e della necessità di aggregarsi comunemente accordata nel condividere spazi e luoghi.

Ora passo però ai miei diretti risultati.
Con questi presupposti nel 2011 mi sono approcciato a descrivere il mio territorio, la mia città, cercando prima di tutto di avere bene in testa un metodo ed una visione complessiva di tutto il lavoro che avrei fatto, e dopo quattro anni, nel 2015, sono riuscito a concretizzare “Evolutio Visio - Sulle orme di Gabriele Basilico - Mestre 2015”.
Ma questo progetto ha subito ben tre ripensamenti nel corso di questo periodo e un esempio precedente ad Evolutio Visio (che ne è la concreta risultanza) è visionabile qui



“Insta-Mestre” voleva essere una seconda visione (dopo un primo progetto che non ha dato una sufficiente soddisfazione) , fatta usando Instagram, della Mestre che percorrevo e guardavo quotidianamente usando un mezzo sempre disponibile, quale il telefono, ma il risultato finale, per quanto interessante, era deficitario di un esame critico ed asettico del visibile.
Ero sicuramente inteso (o succube) ad una parte emotiva, e forse molto “low-fi”, il tutto dovuto al mezzo di ripresa.
Era inteso, ad esempio, ad un maggior dettaglio dei luoghi ripresi. Dettaglio che sarebbe poi sparito in “Evolutio Visio” per dare spazio ai volumi abitativi nel senso più ampio.
Inoltre il senso di “non -luogo” emergerà di più nella fase di “Evolutio Visio” che in “Insta-Mestre”.
Infatti nell’ultima fase la mancanza voluta dell’elemento umano rende ancora di più straniante ed “in attesa” le parti della città riprese, quasi ad indurre ad una voglia di “essere abitate” o ad una sensazione di “eterna attesa”.

La prossima volta ve ne parlerò meglio.
Spero di non avervi annoiato e, scusatemi se non sono stato sufficientemente chiaro, i vostri commenti in merito saranno graditi.




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Le domande del bianco e nero. Parte tre

date » 08-09-2016 04:26

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Le domande del bianco e nero, ovvero del "meglio avere dubbi che avere solo certezze"
Piccolo vademecum ai quesiti del fotografo proto-cosciente.
Critica un sapiente e lo renderai ancor più sapiente. Critica uno stolto e ti farai un nemico.

Parte Tre - La post-produzione e la stampa

Ed eccoci arrivati alla terza parte.

Qui si aprono molte diatribe, dal post-prod si, al post-prod no. Fatto sta che da sempre su questo campo ci si è scontrati in molti, e con molte discussioni su di uno o sull'altro fronte.

Forse non a caso in questi giorni mi è capitato sottomano un articolo con intervista ad uno degli stampatori più influenti della scena milanese (forse mondiale) Roberto Tomasi. Qui l’articolo. Le considerazioni da lui fatte sono interessanti e a mio avviso tutte apprezzabili. Senza nulla togliere allo sviluppo analogico, le riflessioni sul futuro della stampa digitale sono realistiche. 

Storicamente il lavoro di un bravo stampatore era molto complesso, uno scatto buono era già frutto di un lavoro precedente soprattutto mentale da parte del fotografo , ma doveva venire necessariamente rifinito dallo stampatore. Un esempio sono queste foto di Thomas Hoepker su di Muhammad Ali, e una di Bob Henriques di HCB, ma esistono molti altri esempi.


Bob Henriques


Thomas Hoepker

A breve distanza di tempo la polemica su Steve Mc Curry ha acceso dibattiti polemici su tale pratica ... Ma se possiamo fare un ragionamento, a mio avviso, il tutto ha il limite definito dalla personalità, dal linguaggio, o dal pensiero espositivo dell’autore. Quindi il processo di post-produzione ai giorni nostri non si sottrae al compito di completare la valorizzazione del nostro scatto e questo richiede una buona dose di conoscenza e di tecnica. Senza andare a sbordare nel pacchiano o nel kitsch.

Tecnicamente dobbiamo arrivare ad un estrazione del nostro file RAW che sia quanto meno allineata con i profili che abbiamo impostato sulle nostre fotocamere. Dobbiamo conoscere a fondo il nostro estrattore RAW (sia esso Adobe CR, Lightroom o Capture One) (io propendo per l'ultimo) e arrivare alla nostra estrazione di un file Psd il più possibile pronto ed esente da vizi ed errori. 

Ricordando poi che nell’intervallo tra il bianco 255,255,255 ed il nero 0,0,0 esistono (guardaunpò) 254 gradi di grigio…. che sarebbe bene non diventassero alla fine solo 2/3 per moda o per imperizia… non sò se mi spiego …

PS!!! Ecco a cosa serve quell’immagine che ho allegato in evidenza all’apertura dell’articolo… che io uso come riferimento.

Ed ora proviamo a farci le domande inerenti alla post-produzione (sono solo alcuni spunti !!)

- Ho lavorato con i profili giusti tra la camera e l’estrattore raw?
- Ho gestito bene il contrasto?
- Quanto necessita un controllo per singolo colore, al fine di creare le giuste differenze di bianco e nero? Ergo: dall’immagine a colori ho prodotto un bianco e nero fedele?
- Ho capito bene come ritrovarmi un bianco non bruciato nell’immagine? (dunque NON 255,255,255) e mi rimando ai controlli da effettuare durante lo scatto!!
- L’immagine dove dovrà essere pubblicata (web o stampa?)
- Sto lavorando in maniera di preservare tutte le informazioni all’interno del file?
- Ho individuato le aree da schiarire e quella da scurire?
- Ho deciso il metodo con il quale andare a scurirle o schiarirle?
- Ho valutato se croppare l’immagine per darle maggior senso compositivo?
- Ho valutato prima di tutto, se l’immagine deve venire stampata, come trattarla?
- Successivamente ho pensato agli algoritmi migliori per portarla su web e farla apprezzare al meglio senza perdere definizione o avere eccessive maschere di contrasto?
- Ho intrapreso una visione di prova valutando i profili di uscita stampante / carta?
- Il profilo finale dell’immagine è adatto al web o alla stampa?

Per me queste sono le domande principali, e continuo a ripetere che poi, ad ognuno debbono sorgere le proprie e nel porsele ... trovare le strade per risolverle.

Fino a che ci creeremo i giusti dubbi, avremmo modalità di crescere, mantenendo la giusta fiducia nella nostra visione e la volontà di raggiungere i nostri progetti.

D’altra parte il piccolo sentiero che abbiamo percorso, ci ha fatto capire che non esiste uno scatto in sè che non sia preceduto da un pensiero e seguito da un lavoro di sviluppo.

"La fotografia non è facile, soprattutto per i fotografi" (S. Benedusi)

Adesso vi lascio ai vostri pensieri ed ai vostri scatti.

Ed qui ho finito con il tediarvi … :-D 

Ciao!

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Le domande del bianco e nero. Parte due

date » 08-09-2016 04:22

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Le domande del bianco e nero, ovvero del "meglio avere dubbi che avere solo certezze"
Piccolo vademecum ai quesiti del fotografo proto-cosciente.
Critica un sapiente e lo renderai ancor più sapiente. Critica uno stolto e ti farai un nemico.

Parte Due - Durante lo scatto

Ciao a tutti.

Innanzi tutto vi ringrazio per aver contribuito alla discussione sul tema.

E come mi è stato fatto presente, è vero che tutta questa serie di domande, riguardano molto (ma non solo) i fotografi che scattano in digitale e che convertono in bianco e nero.

Ma ritorniamo al nostro discorso ed ai nostri dubbi ... i miei dubbi ...

Parto con una mia considerazione su ciò che dovrebbe essere e invece non è.

Il mezzo digitale ci fornisce una risposta immediata alla nostra visione sul mondo, il suo controllo, la conoscenza tecnica della macchina fotografica in nostro possesso dovrebbe consentirci un immediata padronanza del momento creativo.

Quindi la fotografia digitale con tutti questi vantaggi, dovrebbe aiutarci ad avere certezze in merito a quello che stiamo fotografando , ma mi domando perchè ciò non accade (e lo vediamo nei risultati) anzi, pare venga inibita la voglia di pensare prima a ciò che stiamo facendo, creando una condizione compulsiva di scatto. Cosi capita che, nonostante le innumerevoli possibilità che ci vengono date sul controllo dell’immagine, per pigrizia o per imperizia, scattiamo senza controllare ciò che stiamo facendo. Allora accade che oltre alla mancanza di pre-visualizzazione, siamo anche deficitari nel controllo tecnico del mezzo che stiamo usando. Quindi una prima domanda fondamentale riguarda la conoscenza tecnica dei mezzi che stiamo usando. (in pratica: conosco come le mie tasche questa macchina che sto usando?)

Un altra considerazione che mi vien da fare è quella che una foto tecnicamente buona , (e qui ribadisco che tutto questo pistolotto ha lo scopo di fare qualche domanda sulla tecnica fotografica), è quella che digitalmente proviene da una buona foto a colori.

Perché se la foto a colori è giusta/buona lo sarà anche postprodotta in bianco e nero. Quindi non sarò esente da una corretta calibrazione del bianco, la gamma dei colori dovrà essere gestita pre-scatto e solo dopo che ciò sarà corretto ed a posto, potremmo avere a disposizione uno scatto da poter convertire felicemente in B&N.

Resta inteso, che non voglio qui addentrarmi profondamente anche nelle tematiche di composizione/contenuto/forma, neppure per ciò che riguarda il contatto od il rapporto che intercorre con il nostro soggetto (sia esso cosa o persona) … tento solo di innestare una forma di pensiero precedente allo scatto che ci aiuti a creare meglio la nostra fotografia finale od il nostro progetto.

A mio avviso lo scatto dovrebbe essere già bello e pensato prima, o cercato e atteso almeno intuendone le forme. E solo nella difficoltà di questo atteggiamento che ritroviamo gli scatti di grandi autori. Questo pensiero riguarda tutta la fotografia e non se stacca mai. Pertanto il nostro bagaglio di conoscenza e di cultura sugli autori e sulla fotografia, non ci deve mai lasciare e ci deve essere sempre di aiuto e fare parte del nostro skill. Così cercando di capire le difficoltà o le domande che gli stessi autori si sono fatti e la loro ricerca delle soluzioni.

Ed ora proviamo a farci le domande inerenti allo scatto.

- Ho letto/percepito tutte le differenze di esposizione che vedo nel mirino?
- Quanti stop ho di differenza tra le alte luci e le basse?
- Le alte luci sono bruciate?
- Le basse sono leggibili?
- Ho letto l’istogramma che deriva dallo scatto?
- Sto facendo l’esposizione giusta?
- Sto inquadrando in maniera corretta?
- Dove ho messo il soggetto? Dov’è il “punctum”?
- Sono certo che l’obiettivo che sto usando sia il più indicato per questa scena?
- Saprò trattare tutte le tonalità che vedo ora a colori?
- Ho fatto un buon ragionamento sul tempo/diaframma? Posso enfatizzare la scena cambiando il rapporto?
- Ricerco il dettaglio o l’enfasi?
- Devo documentare oppure creare una sensazione?
- E’ una ricerca grafica dove allora il contrasto è d’obbligo? (però senza bruciare le alte luci!)

Insomma, non dobbiamo mai fermarci di chiederci qualcosa, sopratutto quando vogliamo creare delle buone immagini.

Che poi, ripeto, questo è un discorso forse più tecnico, se poi parliamo di contesto, forma e messaggio … allora … apriti cielo!

Spesso, fronte di immagini scadenti ma comunque ostentatamente esposte, sentiamo a replica delle scuse sull’atto, o sulla mancanza di quello o dell’altro … La fotografia è l’arte della soluzione, non della scusa … infatti in un detto di J.F.Kennedy si riassume il tutto “Gli uomini vincenti trovano sempre una strada...i perdenti una scusa” …

Vi rimando a questa visione del bianco e nero autoriale (leggetelo bene e con calma) ... che ha anche una enorme carica poetica, l''autore non ha bisogno di presentazioni... e la considerazione principale è: che una brutta fotografia a colori che viene portata in bianco e nero, rimane una brutta fotografia... leggete qui questo bellissimo articolo di blog...

Alla prossima ed ultima riflessione, inerente la postproduzione.

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Le domande del bianco e nero. Parte uno

date » 08-09-2016 04:05

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Le domande del bianco e nero, ovvero del "meglio avere dubbi che avere solo certezze"
Piccolo vademecum ai quesiti del fotografo proto-cosciente.
Critica un sapiente e lo renderai ancor più sapiente. Critica uno stolto e ti farai un nemico.

Parte Uno - Prima dello scatto

Da tempo mi vengono chieste delucidazioni su alcuni argomenti riguardanti la fotografia in generale. Sia chiaro, non mi considero un maestro, ma dopo svariati anni di professione, qualcosa sulla fotografia lo ho capito.

Ho capito che bisogna sempre farsi delle domande …

Si … perché mi accorgo che ce n’è sempre da imparare … non è mai finita …

Infatti come recita un vecchio detto veneto che mio nonno citava sempre: “Il saggio non sà nulla, l’intelligente ha molti dubbi, el mona sa sempre tutto”

ecco…

anche nella fotografia coloro che sanno tutto … con delle esclusioni …. fanno parte dell’ultima categoria.

(dico esclusioni, perché esiste comunque una schiera di persone, professionisti, docenti, giornalisti, critici, esperti, che di fotografia ci vivono quotidianamente, con competenza, che non oserei mai introdurre nell''ultima categoria).

Per cui, nella fotografia in bianco e nero, (ma anche in quella a colori) alcuni dubbi debbono sorgere, in più fasi dell’operatività.

Reputo giusta una considerazione fatta in un articolo di Settimio Benedusi, nel quale lui diceva che una foto in bianco e nero è l’ultima spiaggia di una fotografia brutta.

Quando una foto è venuta male a colori, spesso si tenta la magia del bianco e nero, perché nel mostrarla a qualcuno … “ah! adoro il bianco e nero!” … ecco … si aspetta solo questo .. per quando insulso ne sia il contenuto…

Ora, penso di poter fare delle mie considerazioni su questa tecnica e ... porre delle domande che sono le stesse che io mi pongo quando scatto.

Tra un po .. ve le illustro… sperando che servano almeno per arrivare alla considerazione che tecnicamente, quella che abbiamo prodotto sia una buona foto in bianco e nero.

Augusto Pieroni diceva nel suo saggio “Leggere la fotografia” che una fotografia deve avere prima di se … Contesto Forme e Contenuti … ma deve avere sviluppato prima, una fase di ideazione, di reperimento, di scatto, di sviluppo e di esposizione….

Quindi cominceremo con le domande che riguardano l''ideazione ed il reperimento.

Che poi … piccolo ragionamento … alcune di queste domande vanno bene sempre … in qualsiasi fotografia che scattiamo …

Dictat - Per fare una foto in bianco e nero, la penso prima in bianco e nero.

… e mi domando ….

- Questo contesto che voglio fotografare è migliore se reso a colori o B&N? Può andare in tutti e due i casi?
- Sono sicuro che in B&N verrà qualcosa di significativo?
- A che cosa devo dare rilevanza ? Qual’è il soggetto? Ha un senso in B&N?
- Ci stò mettendo qualcosa di mio? O stò solo fotografando alla “cazzicanista” … pardon! … compulsivamente?
- A qualcuno interessa quello che stò vedendo? e di conseguenza quello che voglio fotografare?
- Racconta qualcosa?
- E’ solo un introspezione mia o voglio che “gli altri” la guardino? Perciò … sto cercando di esprimere qualcosa di comprensibile agli altri? meglio ancora il mio linguaggio è comprensibile?
- Sto citando qualche autore del passato? Se si ... lo faccio bene? Ci sto mettendo anche del mio?
- Sto evitando cose ed oggetti o porzioni di inquadratura che disturbano l’immagine?
- Gli angoli? I margini? Come verranno?
- Sto cercando di ridurre al minimo le cose da includere nella composizione?
- Fà parte di un mio progetto? Ho cercato di metterci la mia visione in maniera da rendere omogenea una futura visione?
- La stò percependo in B&N?!!? (me lo devo ripetere bene..)
- Saprò trattare tutte le tonalità che vedo ora a colori?

e qui mi fermo … o se volete aggiungetene voi ...

Sia chiaro … non è che devo ingaggiare un burocrate che mi confermi tutto prima di andare a fare uno scatto … ma … a mano a mano che mi pongo tutte le questioni (e c’è spazio per mille altre ...) fin dalle prime volte si scremeranno tutte le situazioni che risultano banali e non fotografabili, o inutili … fino a quando le domande principali saranno e resteranno le sole a confermarci che stiamo cercando di fare un discorso personale … e che non stiamo fotografando compulsivamente ……

E le domande principali stà a voi capirle…

Le prossime domande saranno quelle da farsi al momento dello scatto, pertanto un po più tecniche, le ultime quando andremmo a post-produrre ed a stampare... perchè le foto vanno stampate ... lo sapevate?

:-D

A tutti quelli che fin qui mi hanno letto ... Ciao! alla prossima ...

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Fotografia Architettura, “Flash Urbani” uno scritto di Gianfranco Vecchiato


“Flash Urbani” uno scritto di Gianfranco Vecchiato su Evolutio Visio la mostra fotografica di Giovanni Cecchinato

La prima immagine fotografica fissata su lastra fu quella di una Architettura. Anno 1826, autore Joseph Niépce. Una incisione su lastra di peltro utilizzando “bitume di Giudea” su cui si fissò un paesaggio che Niépce vedeva dalla sua terrazza. Qualche anno prima (1810) Johann Wolfgang von Goethe pubblicò le sue ricerche sulla Teoria dei colori, e questo mescolarsi culturale fra studi di Letteratura e Scienza, fecero dire a Goethe che quest’ultima proveniva dalla Poesia. Una simbiosi che plasmò il carattere anche di una nuova forma d’Arte, quella fotografica che per il compositore Arrigo Boito “ nacque da un raggio di luce e da un veleno” . Boito colse nelle fotografie gli elementi estremi della vita e della morte, fissati dal tempo che li delimita e che si aprono allo stupore verso un’altra dimensione. L’istante che veniva fermato dall’immagine non sarebbe stato mai più lo stesso. Da allora la tecnica e la scienza sono progredite in ogni campo ma lo scatto fotografico è determinato dalla decisione di ogni autore di estrarre un immagine da uno specifico contesto con il proprio apporto di differenza espressiva, cromatica, emotiva, sensoriale. Tutti elementi importanti anche nella moderna psicanalisi come mezzo di indagine e di confronto. Ogni luogo rivela sempre, ad una attenta indagine, pregi e virtù, limiti culturali, sfruttamenti economici, disequilibri e qualità. Ed è così che nel campo dell’urbanistica e dell’architettura, un edificio si conquista il suo spazio vitale e che entra nel sistema di relazioni urbane ed ambientali. “Parla” della nostra presenza con modi che si possono leggere da una fotografia. Si può fare una diagnosi, senza la confusione dell’insieme di cui fanno parte, così come guardando una persona se ne può intuire la sofferenza o la gioia.

Il fotografo Giovanni Cecchinato , Autore dei fotogrammi che hanno come soggetto identitario Mestre, ha realizzato in passato un cortometraggio, “Quieto Mare” insieme ad un libro “L’Equazione Possibile” per l’AVAPO, una Associazione di volontariato che si occupa dell’assistenza ai pazienti oncologici nel territorio mestrino.

Questa esperienza lo ha posto davanti alla “nudità” dei sentimenti essenziali. Da cui ne deriva una sorta di scelta anche nel fissare immagini di architetture e paesaggi urbani di Mestre, privi di persone. Il tutto pone degli interrogativi, portando i soggetti materiali ad interrogarsi continuamente “sull’immateriale”. James Hillman (1926/2011), psicanalista junghiano e filosofo americano che dedicò molti studi ai rapporti fra l’Uomo e l’Ambiente, nel saggio “Politica della Bellezza” osservò come molti traumi emotivi fossero dovuti alla incapacità di trasformare le realtà che attraversiamo. Il nostro pensiero sociale sul futuro e la capacità di conservare con le forme il nostro passato, trasformano continuamente in “visioni evolutive” un processo sul quale si manifestano traumi complessi per la cui terapia, Hillman, suggeriva di generare forme d’Arte. “Ciò che appare perduto per le Arti, è proprio quello di cui lo psicologo si occupa: l’Anima.”

Se nella Pittura Metafisica di Giorgio De Chirico l’assenza dell’Uomo si traduce in un archetipo geometrico, nei nostri spazi urbani, il vuoto tormenta un ottundimento psichico tra le relazioni personali. L’elemento estetico come fattore di creatività richiede sempre forme di azione politica. Nell’estetica si trova la parte inconscia della nostra cultura dove il concetto di “bellezza” è entrato in crisi quando è stato ignorato, omesso o considerato secondario rispetto al suo valore economico di mercato. Queste fotografie mostrano una parte della evoluzione edilizia di Mestre; sono frammenti singoli di un racconto complesso e tormentato, per diversi aspetti mai interamente rivelato. Gli abitanti sono dentro o fuori le mura edilizie con le espressioni dell’Anima cercate nei colori, sulle strade e nei giardini, nelle case e tra le ville, che furono. Prima di tutto quello che si vede c’era una diversa identità scomparsa con le demolizioni. Nuove fissità rimandano ad un tempo oggi rigenerato e sostituito, in un processo che non si è ancora fermato, dopo aver arato il campo urbano sottraendogli gran parte delle sue radici . Queste fotografie se paiono rivelare ed accentuare una sensazione di “solitudine”, fanno anche emergere identità tutt’altro che banali. Quando il campo visivo si allarga, il vestito di “modernità” edilizia rivela le sue fragilità, tra edifici incompiuti, altri che paiono “spuri” fra loro. Pensati singolarmente, interrogano una immagine sociale a volte incomprensibile. E dunque quale città rappresentano? Nel vederle si è rafforzata in me la convinzione che il primato della pianificazione urbana prevalga su quello della singola architettura. Tuttavia non sempre è così. Ci sono edifici che raccontano e indicano una Comunità che fatica a ritrovarsi nel suo centro, spaesata dai Centri Commerciali, attraversata da forme di insicurezza sociale, da progetti di riqualificazione rimasti incompiuti, pensati per generare racconti e naviganti su sparsi brani edilizi. Quelle Fotografie in bianco e nero che conservano il fascino aspro della Storia, senza la distrazione del colore, paiono rimandare alle cartoline d’epoca. Ecco gli anni ’60 con lo spingersi in altezza di edifici da via Poerio a piazza Barche, a Corso del Popolo, con il fragile certificato di “modernità” della Mestre industriale, con il caotico costruire decine di migliaia di nuovi alloggi, nuove scuole e una vivace presenza giovanile fatta di una crescente vitalità che la pone ai vertici in Italia. Il giudizio severo su ciò che si generò si interroga sul cosa avvenne senza che la Soprintendenza sollevasse alcun problema. Si entra quindi nella dimensione che lega il passato recente al presente: l’edificio a lato del Palazzo S.Lorenzo sorto nel 1961 il cui progettista fu l’Ingegner Ivanissevich; a lato della Rampa Cavalcavia c’è un’opera del 1956, con le terrazze a punta, evocazioni organiche alla F.L.Wright, dell’architetto E.Venturini. Il discusso edificio dell’architetto e pittore Urbani De Gheltoff in via G.Felisati, che si ispirava a forme plastiche con pareti che in origine erano colorate in blu, rosso e giallo. Il “Palazzo delle Generali” , per molti anni il più alto di Mestre, costruito alla fine degli anni ’60 in Corso del Popolo dall’architetto A.Scattolin. Una arteria pensata come poche, fin dagli anni ’30 come un asse moderno e con un coerente equilibrio formale lungo i suoi lati con portici e altezze uniformi. Ma il retro di quell’edilizia, che quasi mai arriva al valore di “architettura” , era casuale perché si studiava l’ornato solo sulla facciata principale. Da una operazione complessa di riqualificazione urbana ed edilizia, una parte di quel retro è stato mascherato da nuove architetture che si affacciano sul piazzale della Madonna Pellegrina, nel quartiere di Altobello. Una fotografia riprende l’edificio residenziale sorto nel 2012 progettato dall’architetto Carlo Magnani. C’è una casa restaurata, che racconta un tempo in cui era parte di un complesso industriale, quello delle Fornaci da Re ad Altobello. Fu salvata negli anni ’80 dalla demolizione per progetti di edilizia popolare e con ciò arrestando quella cultura che aveva distrutto tante memorie urbane. E’ il simbolo di una svolta culturale, ora restaurata e inserita nella rigenerazione urbana di quell’area. Su un’altro asse stradale che da periferico è divenuto essenziale, via Torino, parallelo alla ferrovia ed al Canal Salso, è in atto una grande trasformazione positiva. La strada si apre con un intervento recente che ha sostituito l’ex sede degli autobus Actv con un progetto misto commerciale, residenziale e direzionale su cui sorge un edificio dal forte carattere simbolico. Più avanti si sviluppa una sede universitaria, con alcuni edifici progettati dagli architetti Giampaolo e Giovanna Mar, che prospettano sull’edificio della Cassa di Risparmio del 1988 fatta dallo studio degli Architetti Bernasconi di Milano. Ci sono l’Hotel Laguna Palace e l’Edificio delle Poste, si innesta viale Ancona, altro asse di scorrimento, su cui si affacciano gli uffici pubblici comunali. Sul Cavalcavia l’edificio denominato Vempa non esiste più perché è in corso la costruzione di un Ostello. Anch’esso è entrato a far parte del passato. In via Giuseppe Verdi c’è un altro edificio singolare, le cui forme circolari e il vano scale inclinato portano la firma dello Studio degli architetti Giovanni Trevisan e Plinio Danieli. Poi si riconoscono un tratto di Riviera Magellano, la Galleria Barcella progettata dell’architetto Antonio Fornasiero, il “provvisorio” mercato stabile di via Fapanni, il ponte pedonale e ciclabile sospeso che collega al Parco di San Giuliano. Dai Grandi Magazzini “Le Barche” si vedono degli edifici residue testimonianze di una città che si raccoglieva tra il suo Castello, Piazza Ferretto e Piazza Barche in un mercato di scambi con Venezia attraverso il Canal Salso ed il Teatro Balbi, demolito negli anni dell’Ottocento in cui Goethe scrisse le sue teorie e si inventava la fotografia. Se è stata una città orfana Mestre, di cui Luigi Brunello descrisse i traumi nel libro “Gli anni del saccheggio”, è anche una città nuova. Una gran parte del suo territorio costruito ha meno di 50 anni. La vita ed il tempo continuano a seminare ed a costruire proposte, pensieri, confronti, in un caleidoscopio che è parte della vita quotidiana. Quando Charles Dickens visitò l’Italia a metà Ottocento descrisse da cronista luoghi che erano pieni di grandi contrasti. Edifici maestosi, simbolo e retaggio di un glorioso passato erano mescolati accanto ad una diffusa desolazione urbana. Tra questi antichi monumenti e quelle strade Egli annotò che scorreva una vita quotidiana decadente e però attiva e vivace. Nel tratteggiare i costumi popolari, le feste, le tradizioni e l’esuberanza di “uno spettacolo caotico simile ad una “lanterna magica”, Dickens ne rimase incuriosito ed affascinato . Quella energia popolare presente nella storia in formazione e sui territori è la parte del capitolo nascosto che Giovanni Cecchinato lascia alla profonda riflessione sul nostro futuro.

Gianfranco Vecchiato

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