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Le fotografie del silenzio

date » 17-03-2024 11:27

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tags » libri, saggi, fotografia, mimesis, giliola foschi, silenzio, mimesis, giovanni cecchinato, fotografo, venezia, mestre,

Le fotografie del silenzio
Forme inquiete del vedere
di Gigliola Foschi


ed. Mimesis/Accademia del silenzio







Cosa ci capita, quando ci soffermiamo su delle fotografie che ci interrogano per il loro, a noi sconosciuto, messaggio?
Per quello strano e disturbante contenuto che ci appare incomprensibile e parimenti ci muove corde interiori che ci inquietano?
Come ci comportiamo, cosa ci resta della massa imponente di immagini che recepiamo ogni giorno?

Questi e molti altri interrogativi, emergono dai pensieri che si pone Gigliola Foschi, in questo veloce saggio sulle “Fotografie del silenzio - forme inquiete del vedere” edito da Mimesis/Accademia del silenzio.

Libricino suggerito dall’amico Giancarlo Dell’Antonia, che ringrazio per la bella segnalazione.

Gigliola Foschi è una scrittrice, giornalista, critica d’arte, curatrice, docente di Storia della Fotografia, con un curriculum pieno di riferimenti importanti, appassionata di fotografia e rivolta allo studio ed all’approfondimento dei contenuti della stessa.




In questo saggio, veloce, che conta solo 52 pagine, struttura il suo ragionamento su tre capitoli.

Il primo si interroga sul momento attuale “post-post-fotografico”, sulla ridondanza di produzione e di fruizione delle immagini, individuando fin troppo bene l’uso manipolatorio delle stesse da parte dei mass-media.
Con lei, riusciamo ad individuare il “rumore bianco” che disturba ed inganna la nostra attenzione e che ci distoglie dai piccoli e grandi disastri che viviamo e su cui i mass-media dovrebbero informarci.
Tutto il primo capitolo ragiona sull’aspetto polisemico della fotografia e ci introduce ad una svariata serie di esempi di riferimento, nei quali oltre al piacere di scoprire e riscoprire nomi di autori, filosofi, giornalisti, importanti e logicamente collegati al discorso in atto, ci avvia a considerare questo “rumore” come - purtroppo - onnipresente, deviante ed infine mistificatore della realtà.

Il secondo e terzo capitolo, si dirigono decisamente sulla via del “silenzio dissenziente” e ne emerge “l’intrattabilità” da parte del mainstream delle immagini che realmente contano e parlano dei temi inquieti del nostro tempo.

Non mi addentro oltre, lasciandovi il piacere di scoprire in questo libricino, molte cose che vi faranno ragionare ed interrogare sui contenuti delle opere dei molti artisti citati e sui loro messaggi.




Tutti i testi e le foto sono protette da copyright.
E' vietato ogni utilizzo o riproduzione anche parziale non espressamente autorizzato dall'autore.
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Mementos of happiness, Uma Kinoshita

date » 02-11-2023

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tags » uma, kinoshita, mementos, happiness, libri, arte, fotografia, book, photography, artist, japan, washi, okuma-machi, fukushima,

UMA KINOSHITA
“Mementos of happiness”




Arrivato - finalmente - dopo molto tempo dal suo ordine, un libro davvero pregevole e, non di meno, molto interessante.

Appena arrivato, non vedevo l’ora di poterlo aprire e leggere , ma ho preferito fotografarlo per gustarmi con calma la sua scoperta e raccontarvi alcune sue peculiarità che supponevo prima e di cui poi, ne ho avuto conferma.



Prima di tutto l’autrice, Uma Kinoshita (www.umakinoshita.com) è una fotografa e scrittrice giapponese che produce i suoi libri in tirature limitatissime (questo fa parte di una serie di 5) fabbricati interamente seguendo un suo metodo artigianale molto raffinato e laborioso.

Carte, contenitori, stampa, tutto proviene da un lavoro manuale e certosino. “Mementos of happiness” è un’ indagine fotografica in un luogo ormai disabitato e impossibile da visitare, e ringrazio Uma di aver potuto arrivarci (anche rischiando, e poi capirete il perchè) e darcene una sua visione.

Come una Pryp”jat’ orientale, la cittadina di Okuma-machi nella prefettura di Fukushima è stata evacuata dopo lo tsunami del 2011, che provocò danni ingenti alla vicina centrale nucleare ed un disastro ecologico ancora attivo ai giorni nostri di cui si parla pochissimo. Ora è una città fantasma, vietata alle persone, ed accessibile solo con speciali permessi, poiché il livello delle radiazioni risulta ancora dannoso per la salute umana. A distanza di anni, però, le autorità dichiarano che in alcune parti della città è possibile riabitare, ma a quanto pare la sfiducia e la paura in merito è ancora tanta. Solo circa 400 persone sulle oltre 11.500 hanno chiesto di riavere la proprietà delle loro vecchie case abbandonate dal da quel fatidico pomeriggio del l’11 marzo 2011.

Le fotografie raccolte in più di anno da Uma, tramite la sua fotocamera ci raccontano, comunque, di un luogo che fu. Ci raccontano di un “c’era una volta” ed ora non più, ecco (forse) un raccordo con il titolo che non è citazione alla facile nostalgia o all’immagine retorica, ma tuttalpiù al latino “memento” più simbolico nel definire il “ricorda” e noi dobbiamo ricordarcene.

Usi e costumi ci parlano a distanza di anni, di come i bambini giocavano, (stavano giocando) di come si viveva, (stavano vivendo) della quiete che lentamente scorreva in questa cittadina, di vecchi nelle case di riposo, di case abitate con cura ed attenzione, prima di una evacuazione imposta e repentina nel pomeriggio di quell’11 marzo.




La delicatezza delle immagini e la loro resa sul supporto Kamikawasaki washi, carta di millenaria produzione in Giappone ancora prodotta artigianalmente. sono oniriche ed evocative.

Una ricerca documentale ma romantica che si ciba della maniera orientale di interpretare i paesaggi ed i luoghi di quella città, anche se “man-altered”. Come delle illustrazioni di Hokusai, e non a caso, come le grandi onde (ricordando Kanagawa) a duecento anni di distanza. Come se fossero reinterpretate tramite la fotografia ed una nuova narrazione.

Idea, progetto, realizzazione, artigianalità e passione, mi confermano la bontà di una fotografia “utile e pensata”. Non succube di una spasmodica ricerca del “famolo strano” in voga nel nostro mondo.

Lo scatto compulsivo, l’uso degli automatismi cellularoidi-droidi dominati dalla IA, risultano distanti da questo lavoro e dai lavori di Uma, a confermarmi, anche se non vi è bisogno, di un metodo fotografico ancora vivo se si hanno idee e condizioni giuste per fotografare.





Alla fine cado sempre li, quando vedo lavori validi.
Sulla competenza effettiva dell’autore, e non quella dichiarata dai social in cui vengono elevati a “ruoli non loro” dei semplici "fotografanti" (detto alla Italo Zannier) che si fregiano di competenze a loro invece sconosciute.

Vi consiglio di seguire Uma nei suoi lavori, nel suo sito e in facebook, mi pare non vi sia un profilo instagram (almeno io non sono riuscito e reperirlo).

A presto, con altre piccole disquisizioni sulla fotografia, quella di cui vale la pena parlare.






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JOBS Forme e spazi del lavoro

date » 09-09-2022 16:30

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tags » JOBS, linea di confine, william guerrieri, fotografia, contemporanea, emilia romagna, lavoro, quodlibet, rubiera,



JOBS
Forme e spazi del lavoro

Un indagine interdisciplinare in Emilia Romagna
Quodlibet / Linea di Confine
A cura di Antonello Frongia, Stefano Munarin, Federico Zanfi
Testi di
Marta de Marchi,Cristiana Mattioli, Michela Pace, Stefano Saloriani
Foto di
Allegra Martin, Nicolò Panzeri, Andrea Simi, Andrea Pertoldeo




Ricevo in questi giorni, un libro di ricerca sugli ambienti/spazi lavorativi in Emilia Romagna a sulla manodopera che vi lavora.

Un analisi molto dettagliata frutto di un team di esperti che sulla base di un bando emesso dal Ministero della Cultura ed in specifico dalla Direzione Generale Creatività Contemporanea per Strategia Fotografia 2020 hanno dato vita a questo volume e ad una esposizione (vedi qui) tenuta nella sede di Linea di Confine a Rubiera (MO) dal 29 ottobre 2021 al 19 dicembre 2021.

Esposizione che ha visto oltre ai lavori, sempre sul tema del lavoro e dei suoi spazi, di due grandi autori come William Guerrieri (con Bodies of work) e Michele Borzoni (con Workforces) gli esiti di un laboratorio a cui partecipavo assieme ad altri fotografi con un piccolo progetto personale su di un ente di formazione di manodopera specializzata nel distretto di produzione calzaturiero della Riviera del Brenta (PD) che si titola “Terrae Calcei” (puoi vederlo qui).

Ma torniamo alla pubblicazione.
All’interno due saggi mi sono sembrati importanti in quanto riportano delle riflessioni sull’indagine fotografica contemporanea.
Punti che specifico e tratto qui, in questo mio diario, per ragionarci e memorizzare dei concetti, a livello personale, o spunto di future discussoni, ma che non riassumono o sintetizzano la complessa opera editoriale, alla quale vi rimando e, sopratutto, della quale ve ne suggerisco l’acquisto.

Un punto che mi ha colpito nel testo di apertura di William Guerrieri (coordinatore dell’intero progetto) è quando ragiona, partendo dalle considerazioni filosofiche di Paolo Costantini, della fotografia “come luogo autonomo della ricerca e non della mera rappresentazione del reale […] (luogo) nel quale vanificare l’usuale contrapposizione della fotografia come espressione artistica o come documento
Affermazione che dunque apre il presupposto ad avere un approccio che viene definito di ambiguità costitutiva.
Cosa che mi pone molte domande in merito, belle ed interessanti, da sviluppare.
Ma qui, a parte l'opinione o la visione personale, o forse una considerazione da non vedere come assoluta, me nella quale è utile soffermarsi, è giusto che vi sia uno spazio della libertà interpretativa.
Inoltre se ne potrà continuare a parlare a voce, ancora, tra di noi alla prima occasione di incontro, poichè dibatutta qui potrebbe essere solo una visione unilaterale e potrebbe diventare un monologo di poco conto.


dal progetto "Terra Calcei" esposto a "JOBS Forme e spazi del lavoro" a Rubiera (MO)


Nello sviluppo del testo emerge comunque la necessità di questa ricerca, e quella di nuovi linguaggi.
Linguaggi che esplorino le potenzialità espressive e ne sfruttino l’ambiguità del media fotografico, per metterle a disposizione di approcci che verifichino, dunque (senza farsi ingannare) la “ leggerezza aggettivante dell’economia dell’immateriale” (cit. Aldo Bonomi).
Altro punto che mi ha fatto riflettere anche sui presupposti delle ”ricognizioni sui territori” alle quali stiamo dedicando molta della nostra attenzione.

Ho trovato altresì interessante il saggio di Stefano Munarin e Federico Zanfi, in un punto, quando nel paragrafo “Cosa vediamo, come guardiamo”, viene sviluppato il tema dello sguardo sui territori e dei cambiamenti in atto nei luoghi del lavoro. In un punto specifico viene messo in evidenza quanto nei decenni passati, i cambiamenti si palesavano in maniera evidente e diretta tramite l’addizione di nuovi manufatti edilizi, mentre ora per capirne la metamorfosi ed i nuovi sviluppi, bisogna, forzatamente, entrare al loro interno per capirne i nuovi e modificati spazi e le loro nuove destinazioni d’uso.

Punti che mi hanno fatto riflettere ed aprire ulteriori considerazioni, anche se potrebbe essere quasi scontato o dato già per acquisito, direte voi, ma risulta utile per considerare o rivedere l'approccio, che necessita, dunque, sempre di più un analisi "interna", non limitata agli spazi o agli aspetti esteriori, che spesso prediligiamo o che rendiamo unico punto di vista di un indagine.


dal progetto "Terra Calcei" esposto a "JOBS Forme e spazi del lavoro" a Rubiera (MO)

Assieme al lavoro fotografico di alcuni valenti fotografi, rinomati nella scena della fotografia nazionale come Allegra Martin, Nicolò Panzeri, Andrea Simi, Andrea Pertoldeo il volume si sviluppa in maniera intensa e deve essere letto con attenzione e dedizione.
Occasione di valutare ed approfondire i temi di questo tipo di fotografia nei quali ci si era addentrati in occasione dell'incontro con William Guerrieri allo "Sguardo e l'ombelico" al Candiani il 9 di ottobre del 2021 (qui il video).

Buona lettura.



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La serena inquietudine del territorio - Esposizione a San Donà di Piave



“La serena inquietudine del territorio”

Ricognizioni sul paesaggio veneto
San Donà 6/21 novembre 2021
A cura di Giovanni Cecchinato ed Alessandro Angeli
Organizzazione a cura di Culturaincorso e dell'Amministrazione della Città di San Donà di Piave (VE).

“La serena inquietudine del territorio” è un gruppo di fotografi, scrittori, architetti, giornalisti, critici, editori, che si propone di ricercare fotograficamente le “serene inquietudini “ del territorio veneto, tramite un laboratorio virtuale che si trova su FB. L’obiettivo di queste analisi non è polemico o retorico, tanto quanto spunto per una più ampia riflessione sulle evoluzioni dei luoghi che viviamo e tenta di indurre a dei ragionamenti costruttivi in questa regione che sta attuando una veloce metamorfosi da un attitudine rurale e contadina ad una più industrial/commerciale purtroppo non sempre pianificata e a volte vittima di speculazioni.
Ed anche se tale obiettivo di gruppo non dovesse essere raggiunto, noi pensiamo che i lavori eseguiti, potranno essere di documento e di ricordo per momenti futuri.

In questa esposizione, anticipatrice del numero 1 della rivista (e modificata come intenti del progetto iniziato con il numero pilota 0) i lavori proposti non sono più solo attenti al paesaggio modificato dall’uomo ma vi si inserisce l’analisi antropologica stessa, o del paesaggio sociale, come nuovo metodo di racconto.
Una diversificazione ed una ricerca che ci permette di raggruppare stili e tecniche diverse in un unico contesto, permettendo di valorizzare l’obiettivo di questo gruppo che segue i pensieri tradizionali delle scuole di riferimento nell’indagine dei paesaggi, ma accetta e supporta nuove forme di visione più consone ai tempi che viviamo.



La serena inquietudine del territorio - San Donà di Piave - Inaugurazione del 6 novembre 2021
F. Morassutto, M. Fogarolo, A. Angeli, G. Cecchinato, F. Finotto, Ass. Chiara Polita, G. Rado, G. Meneghetti, C. Chiapponi, P. Montagner, E. Bozzi


Una veloce sinossi dei progetti che sono stati esposti anticipatori del LSIDT #01

Giancarlo Rado
con “Centro Sociale Django” ci illustra un progetto sviluppato in un tempo molto ampio. Un esempio di un riutilizzo virtuoso di luoghi abbandonati all’interno della città di Treviso. Come vengono re-inventati e come sono ri-abitati.

Sara Pellizzer
Con “Gente di Fiume” tende a comprendere se esiste e quale è la relazione tra le persone che vivono o trascorrono parte del loro tempo lungo le rive del fiume e il ruolo contemporaneo che invece, ad oggi, svolge il Piave, un ruolo fortemente diversificato dai tempi della guerra, forse scomparso e che a causa delle problematiche relative alla sua salvaguardia, lo portano ad essere succube del suo tempo presente.



Samantha Banetta
Il progetto “Scuola Covid” si propone di indagare gli effetti sociologici della pandemia da Covid-19 su di un gruppo di studenti della scuola superiore della provincia veneziana nel periodo di transizione tra la didattica a distanza e il graduale rientro in aula in presenza.

Graziella Pagotto
Tramite il progetto complesso “Fitodepurazione” la Pagotto indaga e studia le modalità alternative di depurazione tramite le piante acquatiche. Un esempio virtuoso di depurazione che nel progetto totale vede storia , impianti ed un erbario (qui esposto parzialmente) a corredo del lavoro.



Paola Montagner
Con il progetto “My-Loc” Paola Montagner usa i mezzi di visione tramite satellite messi a disposizione da Google, per estrarne porzioni di suolo e adattarle ad una visione formale ed estetizzante. Esempio di uso delle tecniche post-fotografiche, che seppur non prodotte direttamente dall’autore, vengono manipolate e reinterpretate parlando comunque del territorio.

Fabio Morassutto
Con un estratto di due lavori differenti, studia ed interpreta i risvolti di una città che convive con l’acqua, come Venezia, estraendole dall’immaginario collettivo e fornendo delle visioni personali.

Marco Vedana
Tedesco con radici venete, nei suoi ritorni in regione, vede e rivede i luoghi montani di origine, estraendone criticità e bellezza, unendo le due visioni e creando sempre delle immagini di poetica bellezza ma anche creatrici di riflessioni.



Eliana Bozzi
Con il progetto “Derma” indaga la vita dell’isola di Pellestrina, avvicinando persone e cose. Tracciando una mappa del luogo, non nel senso ampio e letterale del termine, ma trovandone un microcosmo interno e facendo diventare tutto pelle.

Carlo Chiapponi
Con il progetto “Acque Risorgive” ci porta una visione riunita in dittici verticali, che rivelano nuove prospettive e nuove interpretazioni, nel cammino che queste acque fanno tra le sorgenti e la foce. Costrette da limiti cementizi ed infrastrutture di sfruttamento energetico. Passando dallo stato cristallino, via a via quello più torbido.

Giorgio Meneghetti
Con il progetto “Acque interne” anch’egli adopera il dittico come elemento di misurazione del tempo. Esaminando i corsi d’acqua interni della città di Padova, ne estrae il passare delle ore, assieme a tutti i riaffioramenti che mano a mano rendono questi limiti anfibi e sempre mutevoli.



Francesco Finotto
Con “Idrovore - Viaggio in bonifica” ci illustra e rappresenta i manufatti delle idrovore presenti nella Venezia Orientale, che rappresentano vita e sopravvivenza delle terre interne, strumento indispensabile alla continuità delle colture e della vita quotidiana.

Marco Fogarolo
Con “L’incompiuta” percorre il tragitto mai completato dell’idrovia Padova-Venezia, fermandosi. In luoghi dove l’incompleto è evidente e convive con il quotidiano, esempio classico di serena inquietudine.



Tutti questi progetti saranno maggiormente visibile assieme ad altri nel prossimo numero de “LSIDT” acquistabile nel sito web che porterà lo stesso nome.



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Il Grande Risveglio

Il Grande Risveglio
La Fotografia Italiana del secondo dopoguerra agli anni 80
Villa Giovannina Villorba (TV)
Fino al 17 ottobre 2021




Per decenni (nella prima metà del novecento) l’attitudine espressiva (provinciale) italiana nella fotografia, fu amplificata dall’imperante gusto fascista e da attività estetizzanti (importanti, utili ma ridondanti), come quella documentativa degli studi Alinari.
Tale approccio preponderante aveva l’impatto maggiore nella fotografia italiana lasciando poco spazio ad innovazioni o ricerche utili in questo campo, salvo rare eccezioni.

Solo nell’immediato dopo guerra, una più fervida e fresca attenzione per la realtà farà nascere il filone del Neorealismo assieme alla volontà di ricostruzione di un paese in macerie.
Via a via, la fotografia italiana si emancipava dal provincialismo ed assumeva connotati sempre più freschi e propositivi.
Assieme al Neorealismo, sono nati fenomeni come quelli dei Paparazzi, che pescavano nelle attualità e nelle prurigini di un popolo che, dopo i bombardamenti scopriva il progresso, la democrazia (anche sociale ed informativa) e la “dolce vita”.
Poi mano a mano, in un crescendo industriale e di benessere diffuso (dalla Fiat 500 al televisore, al frigorifero, ed alle vacanze ferragostane di massa) l’Italia avviava dei processi di progresso che investivano anche il medium che la racconta, cioè la fotografia, fino ad arrivare ai giorni nostri, dove tale medium è diffuso e facente parte della vita quotidiana di ognuno di noi.

In maniera chiara ed affascinante questa esposizione a Villa Giovannina, ripercorre questi anni importanti tramite una nutrita parte della collezione di Dionisio Gavagnin.
Una sintesi temporale della fotografia che và dagli anni ’50 agli anni ’80 e che (a differenza di molte altre esposizioni) si basa "non solo" su pezzi iconici (anche se ce ne sono parecchi) ma su “fotografie importanti” di quasi tutti gli autori nazionali che hanno detto qualcosa in questo lasso di tempo.
Grazie all’attitudine artistica/culturale di Dionisio Gavagnin, le foto della collezione, selezionate e curate da Maria Francesca Frosi, non strizzano l’occhio al mercato, ed è lampante che non sono frutto di una ricerca dell’acquirente per meri scopi speculativi, ma rappresentano, invece, dei tasselli fondamentali in una ricerca dello stesso su di una visione a 360 gradi della fotografia nazionale e mondiale che abbia “in primis” un valore culturale.
Una sorta di data-base di quello che rappresenta un vero passo in avanti, in questo campo molto difficile da perimetrare.

Nello svolgere il percorso espositivo ideale, tra i Paparazzi ed il Neorealismo, passando alla “Fotografia critica” verso la società di massa, con la Mec-Art e la Poesia Visiva, ci si immerge nel momento “Concettuale” per poi passare all’Azione politica e alla riscoperta dei “Corpi e delle Identità” per approdare ad uno dei momenti più importanti e significativi della fotografia italiana che fu “Viaggio in Italia”.









Ecco che esposizioni come queste, non gestite da grandi fondi o da amministrazioni, ma portate avanti da un privato, diventano più efficienti di qualsiasi simposio e mostra organizzata sottostante a vincoli e con imposizioni.
Una vera visione autonoma ed indipendente, (che solo per questo andrebbe vista) che fà luce tramite documenti di un periodo storico di progresso dove alcuni aspetti informativi corrono secondo regole e non secondo verità.

In chiusura mi sento di fare un altrettanto importante appunto agli enti di gestione di Villa Giovannina, che andrebbero encomiati per la volontà di fare attività in un ambiente storico (un vero “luogo di cultura”) ristrutturato e gestito con attenzione ed amore, nonché un attenzione particolare va riservata, dulcis in fundo, alla curatela attenta e preparata di Maria Francesca Frosi.







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Del Totenburg di Quero Vas

date » 16-08-2021

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tags » Totenburg, Quero, Vas, Tarantino, Quentin, Vincenzo, Agostini, Montagna, Nazismo,

Del Totenburg o Castello dei morti di Quero Vas.



Sto leggendo da qualche giorno un libro molto denso ed interessante ("La montagna di Quentin" di Vincenzo Agostini) che ragiona su molti aspetti del fascismo e del nazismo, partendo da un film (e da una scena in specifico) del film “Bastardi senza Gloria” di Quentin Tarantino.
Un modo per ragionare su di alcuni aspetti della cinematografia Tarantiniana, densa di cultura e di citazioni nascoste, e prenderla come base per un ragionamento sulle autocrazie , le loro componenti, le loro ideologie.
Partendo da digressioni sulle tipologie e la psicologia del “maschio fascista “, ancora attualissime peraltro, e molte altre disquisizioni su come il fascismo non sia un movimento politico ma uno stato umorale dell’essere umano, sono rimasto affascinato dalla storia del Totenburg di Quero Vas.
Posizionato in luogo strategico per la visione del territorio circostante, questo edificio composto da blocchi in porfido provenienti dal Passo Rolle, deve la sua singolarità al colore delle pietre di un rosso cupo che ricordano il colore del sangue.
Creato dall’architetto Robert Tishler nel 1939 il “Castello dei morti” o Totenburg veniva inaugurato alla presenza di gran parte della Wehrmacht e rappresentanze delle SS e del Reich per ricordare i resti di 3461 soldati tedeschi periti li nella prima guerra mondiale, dove la ridotta era il punto avanzato di una linea di attacco dell'esercito Austro-Tedesco.
Da li a poco sarebbe successo il disastro mondiale che tutti noi conosciamo, ma in quel specifico caso perfino il Generale Augusto Grassi vide in questa costruzione dei significati "evidentemente ostili".



Negli ultimi decenni ha perso il suo appellativo iniziale, e viene chiamato (nelle indicazioni stradali) solo monumento commemorativo, o cimitero tedesco. Una monumento ben visibile sul Col’ Maor, che spicca tra la vegetazione e gli abitati, ma un architettura cosi, carica di simbolismi, era segno di una sicura originaria intenzione di ri-appropriazione di un suolo che si rivendicava e si sognava diventasse proprietà.
Ad oggi, rimane un baluardo, pressoché sconosciuto ai più. Ma di enorme impatto per chi lo visita. I simboli del fasto nazista sono stati cancellati e rimpiazzati da più benevole croci, ma un aquila resta ancora, anche se la svastica che artiglia è stata cancellata.


Porta alla riflessione la stanza ricavata al centro del monumento, a cui si ha accesso tramite un corridoio poco illuminato, che costringe gli occhi ad abituarsi (non facilmente) e permettere cosi di avanzare con sicurezza.
Al centro della stanza, sulla quale sovrasta un oculo a fornire luce proprio nel punto centrale dove il "Blutaltar", l'altare del sangue, si erge nero e solenne, sorvegliato su ogni parete da soldati germanici che più che difenderlo sembrano pensosi e raccolti a capire il senso degli accadimenti e del tempo.



Il luogo incute timore ma allo stesso tempo porta a riflettere sul senso delle guerre e sui simboli del potere.
Vi suggerisco la lettura del libro “La montagna di Quentin” di Vincenzo Agostini, una lettura ricca e riflessiva su molti aspetti storici e psicologici delle dittature, con approfondimenti nel campo del cinema, dell’architettura e della montagna.





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La serena inquietudine del territorio - numero zero

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Le ragioni ed i propositi del progetto de
“La serena inquietudine del territorio”



Paesaggio
Porzione di territorio considerata
dal punto di vista prospettico o descrittivo,
per lo più con un senso affettivo cui può
più o meno associarsi anche un’esigenza
di ordine artistico ed estetico(1)



Era il 2008 quando, riflettendo sulla trasformazione della mia città e della mia regione, mi venne in mente questo ossimoro, quello relativo ad una ‘serena inquietudine’. Una sorta di maschera, che pervade il luogo che abito. Che si vorrebbe essere fatto a misura d’uomo, abitabile, ergonomico, studiato a priori. Che invece risulta essere costruito per strati, a posteriori, con vari impedimenti e poco razionale. Ma si vive, per forza, facendo ‘buon viso a cattivo gioco’. Così, a quel tempo, pensai di avviare un progetto di indagine fotografica sul territorio veneziano che tentasse di restituire quella sensazione.
Questa idea si arrestò poco dopo, per via della sua trasformazione in quello che sarebbe diventato poi “Evolutio Visio - Mestre 2015” un progetto specifico sulla città di Mestre che andava a confrontarsi con il lavoro di Gabriele Basilico, da lui effettuato 15 anni prima sul territorio mestrino. Lavoro esposto in più occasioni ed in più parti d’Italia, che aveva come fulcro una visione della città di Mestre che si poteva considerare come ‘città media’ e, di conseguenza, archetipo di molte altre realtà urbane. Città che si era evoluta, città che si era cristallizzata.
Ripresi quell’ossimoro e divenne una realtà quando, nel 2016, decisi di creare una pagina sul social Facebook con quel titolo, che mi auguravo riunisse autori che, sposando questa visione, sviluppassero nuove indagini, allargandone il campo a tutto il Veneto. Non avrei mai sperato in tanta partecipazione e interesse, avvenuti con il totale entusiasmo da parte di tutti i partecipanti a questo progetto.
Vista poi la quantità di materiale prodotto dai singoli autori, in quest’anno di reclusioni casalinghe dovute alla pandemia ho pensato che ci si potesse avvicinare al concetto di “patronato ideologico”(2) mirando a uno sviluppo tangibile del materiale migliore postato sulla pagina e, vista la mancanza di due dei tre soggetti principali necessari ad indagini similari, cioè una committenza pubblica ed il soggetto mediatore, mi sembrava fosse una buona idea quella di sviluppare con tutte queste fotografie una rivista cartacea, non più indagine personale ma di ricerca di gruppo, autoprodotta ed autogestita.
Oggi qui, tutti assieme, prendiamo in mano il risultato finale di quell’idea iniziale, cercando di abbozzare quella “iconografia dell’incerto”(3) che nella sua multiforme estensione ed eterogeneità assume una rilevanza rispetto alla visione di ogni singolo autore. Una mappatura di ‘luoghi minori e non’, di una parte delle province venete (purtroppo non tutte) che in questa fase ‘pilota’ tenta di indagare non solo la poetica ma anche la malasorte degli spazi urbani e rurali, dove la destinazione ad una ‘lettura’ a posteriori potrebbe diventare utile per chi effettivamente può (e dovrebbe) darne una soluzione.
Mi auguro che possa esserci in futuro l’opportunità di continuare ad indagare e riflettere sulla nostra regione (definita così solo in termini ‘di territorio’ e di progetto, e senza nessuna visione campanilistica). Regione che, come molte altre, ‘inquietamente’ continua a sopravvivere sotto una sorta di ‘serena’ superficiale normalità.
E alla fine di tutto questo progetto (lo spero vivamente) potrebbe accadere che “saremo riusciti a capire quello che stavamo cercando solo dopo averlo trovato”.(4)
In conclusione, e osservando il risultato finale di questo numero “0” (per cui, ripeto, assolutamente ‘pilota’), mi rendo conto che un impianto fotografico cosi eterogeneo e diverso, per stili ed espressione, non debba assolutamente intendersi come definitivo o esaustivo, ma mi auguro sia prodromico a pubblicazioni successive con obiettivi specifici, e che diventi uno strumento utile a interpretare i luoghi che in questo piccolo spazio temporale ci sono stati dati (‘concessi’) da vivere, ricordando il pensiero che Luigi Ghirri fece a riguardo dell’ambiente, che già negli anni ’70/’80 mutava, ed era già “un disastro visivo colossale”, quindi, oggi, con il nostro esame fotografico, proveremo ad apportare a tutto ciò una ‘critica’ in maniera dialettica e non come facendone un ‘assunto’.(5)



Il magazine è acquistabile qui sulla piattaforma di Blurb


Note
(1) Dionisio Gavagnin, Fini & Confini - Dal Paesaggio al Territorio, dal catalogo dell’omonima mostra al MuPa;
(2) William Guerrieri, La fotografia come pratica culturale, p. 209, da PhotoPaysage, ed. Quodlibet;
(3) Malvina Borgherini, Sul mostrare, p. 57, da PhotoPaysage, ed. Quodlibet;
(4) Jo Nesbø, L’uomo di neve, cit. da Stefano Munarin in Territorio, urbanistica, fotografia: una piccola storia tra autobiografia e vicende collettive, da PhotoPaysage, ed. Quodlibet;
(5) Luigi Ghirri, Lezioni di fotografia, p. 54, ed. Quodlibet.

Identificazione di un paesaggio

Identificazione di un paesaggio
Venezia - Marghera
Fotografia e trasformazioni nella città contemporanea
Un ragionamento sull’importanza della “New Topography” nel territorio Veneto.






Paesaggio - Porzione di territorio considerata dal punto di vista prospettico o descrittivo, per lo più con un senso affettivo cui può più o meno associarsi anche un esigenza di ordine artistico ed estetico (1)


Un tema a cui mi sento particolarmente legato, fotograficamente, è quello della descrizione e della mutazione dei paesaggi contemporanei tramite quello stile che normalmente, tra gli addetti, è definito come “New Topography”.
Un tema ed un metodo importante sopratutto nel caso della nostra regione, il Veneto.
Nella descrizione lessicale del termine paesaggio, che ha trovato non poche difficoltà ad essere inclusa nei dizionari (se ne riconosce il termine alla fine del ‘700 nella lingua francese, poi, solo dopo molto tempo, a mano a mano ha preso corpo anche in altri idiomi) deve essere sottintesa anche la sua rappresentazione più ampia che è quella di “territorio”, per la quale invece, non ci sono dubbi, rappresenti un termine molto diffuso fin dall’antichità poiché legato alla definizione precisa di confini, possedimenti, proprietà.

In fotografia il paesaggio è un soggetto molto indagato. Proprio per questa sua peculiarità può assumere un aspetto molto soggettivo, in virtù del fatto che si adatta all’occhio di chi lo guarda.

Lo sapeva benissimo il rimpianto Paolo Costantini, curatore di mostre iconiche, rimaste nella mente di molti appassionati di fotografia. Egli aveva ben presente l’importanza del paesaggio veneto quando negli anni 2000 ideò, creò, organizzò, un esposizione che diventò una pietra miliare nella difficile e controversa indagine che è quella sul tessuto produttivo nel polo industriale di Marghera.

Egli riunì un gruppo di fotografi, che senza sorta di errore in merito, rappresentavano la crema della “New topography” mondiale.
Fotografi nei quali si riconoscevano le tensioni di un modo di intendere la fotografia che rifiutava di fare solo proposte formali od ornamentali (2) .
Fotografi del calibro di L. Baltz, F. Golke, J. Gossage. A. Hutte, S. Shore (solo per citarne alcuni) che potevano rappresentare al meglio l’inquietudine di una fotografia che rifletteva su di sé stessa, non trovandosi in pace con l’ambiente che esplora.
In questa esposizione, storica, di cui il catalogo (in foto) rappresenta una sorta di manuale esemplificativo di quella che possiamo dire una “fotografia di paesaggio” alla quale aggiungerei “moderno, contemporaneo ed industriale” è fonte di continuo ripensamento e confronto per me.
Uno dei molti scrigni dove contenere i saperi e sul quale confrontarsi quando si tratta di parlare del paesaggio Veneto, di cui Marghera con la sue industrie rappresenta uno spaccato molto importante.

Lo so che, normalmente, il rimando alla mostra di Rochester del 1975 “New Topographics: Photographs of a Man-altered Landscape” è un po’ il “Sacro Graal” di questo tipo di attenzione verso i cambiamenti del paesaggio contemporaneo (ricordando che a suo tempo, l’esposizione fu ampiamente ed aspramente criticata). Ma nonostante la sua iconicità, alla quale seguirà anche qui in Italia un altro progetto molto importante come quello di Luigi Ghirri “Viaggio in Italia”, la mostra “Identificazione di un paesaggio” è, a mio parere, importantissima poiché si rivolge a questa parte di territorio Veneto che abitualmente guardiamo con sufficienza e del quale viviamo quotidianamente le forme, non occupandoci più delle sue problematiche insite.

Infatti all’interno del catalogo, in un lungo saggio, Paolo Costantini ci rimanda a dei suoi ragionamenti relativi al lascito di quest’esposizione che, adesso, a 20 anni di distanza possiamo considerare anticipatori di “una frattura storica” (3) della fotografia con le problematiche del paesaggio moderno.

All’interno del catalogo troviamo le analisi fotografiche che Lewis Baltz, John Davies, Jean Louis Garnell, John Gossage, Frank Gohlke, Anthony Hernandez, Axel Hutte, Geoffrey James, Richard Pare, Toshio Shibata, Stephen Shore, fecero nel distretto industriale di Marghera.
Ognuno con il proprio occhio, ognuno alla ricerca del proprio paesaggio.
Indagini molto differenti tra di loro, che portano alla luce paesaggi soggettivi che di colpo diventano tematiche "in sospeso" assieme alle responsabilità irrisolte dei poteri economici e politici.
Ognuno di loro aveva assunto l’intento di portare alla luce l’inquietudine e le dissonanze di un distretto che già 20 anni fa' cedeva il passo al cambio dei tempi e lentamente moriva, lasciando dietro di sé, problematiche relative a bonifiche ed abbandoni, fatiscenze e degrado, necessità di riconversione.

Ecco che al centro del ragionamento, la fotografia, quella parte di fotografia che (ereditando il nome dalla mostra americana del ’75) definiamo come “New Topography”, ci aiuta e diventa “utile”. Utile a ricordare, utile ad analizzare, utile a produrre delle domande ed a trovare (se possibile, se ne esistono delle volontà) delle soluzioni, oppure diventare, se non si sono verificate le condizioni precedenti, almeno (o forse sopratutto) un “documento”.

Tutto questo enorme progetto di esame, sul quale mi ritrovo a ritornare periodicamente, non solo indica un metodo culturale, metaforico e sociale, necessario di una rilettura continua nel tempo, ma anche un parametro di base per i fotografi che affrontano il tema del paesaggio.
Ultima considerazione è quella sull’importanza del mezzo fotografico e della necessaria cultura che lo dovrebbe sostenere, permettendo cosi alla effimera definizione che di solito facciamo della “fotografia”, in generale collegata alle parola “emozione”, di essere sostituita ad un significato di “sostanza” e di “utilità” anche per chi in futuro si rivolgerà ad essa.
Fortunatamente, oggi, riusciamo ad identificare la bontà di quei presupposti e possiamo dire che la fotografia può essere un media che fornisce strumenti per capire le modificazioni dei territori e dei paesaggi, siano essi quelli “interiori” o quelli esterni, dunque appartenenti a tutti noi, in cui tutti dobbiamo sentirci direttamente corresponsabili della loro trasformazione sia in meglio che in peggio. Si potrebbe dire in conclusione che in questo approccio alla fotografia “l’estetica deve essere , in qualche modo, sottomessa alla dimensione morale” (cit. Vincenzo Castella) (4).



(1) Dionisio Gavagnin - Fini & Confini - Dal Paesaggio al Territorio, dal Catalogo dell’omonima mostra al MuPa di Torre d Mosto (VE)
(2) Identificazione di un paesaggio - Paolo Costantini p.12 - Ed. Silvana editoriale
(3) Identificazione di un paesaggio - Paolo Costantini p.14 - Ed. Silvana editoriale
(4) Roberta Valtorta - In cerca dei luoghi (non si trattava solo di paesaggio) - saggio della stessa in Luogo ed identità nella fotografia italiana contemporanea - p.76 - Ed. Einaudi




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IpoTetico Diario #10 - Il viaggio e i leoni

date » 21-05-2020

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La vita non è un viaggio.
A te sembra. Non è così.
Non lo fai in compagnia.
Anche se sembra.
E finisce che la compagnia è quella che non avresti voluto.

Si è soli, devi saper fare la tua scelta.
Come una fotografia,
scegli tu dove guardare,
scegli tu cosa mettere dentro al mirino.
Nessuno ti aiuta, anche se qualcuno fa finta di farlo.
Non è come nei film, o nelle canzoni.

Te ne accorgi di notte, quando ti alzi per caso,
O come ogni notte?

E la tua coscienza è disturbata solo dal silenzio.
E forse pare più pulita.
Mentre accendi la luce e la tua ombra esce dalla finestra aperta.
E si abbraccia con la notte di maggio,
sparsa di profumo di gelsomini in fiore.





E’una guerra di stazionamento.
Dove devi resistere bombardato dal destino.
Perchè il mondo, in fondo, è in mano a chi bombarda.
Devi solo pensare di resistere.

La vita non è un viaggio.
E spesso ancora inciampo, come da piccolo.
Ma ho imparato a riprendere la posizione.
La vita non è il viaggio,
però ancora mi piace guardare
i leoni,
alla televisione.




Les Rencontres d'Arles 2019

Les Rencontres d'Arles 2019
50^ anni di successi del festival di fotografia più conosciuto in Europa



Quando Lucien Clergue (morto nel 2014) invitò nel 1974 Ansel Adams a questa piccola manifestazione fotografica, non poteva prevedere il successo a catena che si sarebbe creato. Insieme a Michel Tournier (morto nel 2016) e Jean-Maurice Rouquette, che ci ha lasciato quest’anno, formarono un gruppo capace di convergere l’attenzione mondiale dell’attività fotografica verso questa piccola città camarguese famosa precedentemente solo per il soggiorno del pittore Vincent Van Gogh.

Questo cinquantenario segna un momento di riflessione, svolta ed innovazione in questa rassegna. Lo stuolo di curatori di altissimo livello e l’organizzazione competente al massimo nel campo fotografico ha voluto rompere dei cliché ed avviarsi verso una rassegna i cui i nomi conosciuti mondialmente fossero assenti, ma altrettanti artisti di talento indiscusso e sicuramente di riferimento per il domani fossero invece i protagonisti.

Quando ho guardato per la prima volta il programma, confesso di non aver riconosciuto nessuno degli autori che venivano presentati. Con un po di sospetto ho cominciato ad avviarmi presso le esposizioni nei posti principali di centro città.
Posso assicurarvi , che subito dopo, una specie di sottile euforia ha preso il sopravvento e la voglia di esplorare tutti i restanti spazi mi ha assalito.

Spiccano tra tutte le mostre di Evangelia Kranioti “The living, the dead and those at sea”, Philippe Chancel “Datazone”, Mohamed Bourissa “Free Trade”, Mario del Corto “Vegetal Umanity, as the garden unfurls”, Cristian Lutz “Eldorado” e l’installazione di The Anonymous Project “The House”.
Progetti nuovi, realmente collegati al presente, citativi, ma allo stesso tempo capaci di scatenare pensieri, dubbi sul futuro, sulla nostra esistenza attuale e sulle diverse modalità di intraprendere i nostri percorsi di vita.



Evangelia KRANIOTI, greca, filmmaker e fotografa, ha esplorato i bordi delle esistenze e dei destini individuali tra cargo, marinai e prostitute, nel carnevale di Rio de Janeiro, nel Libano, in Africa e per finire nella necropoli del Cairo, usando una fotografia staged di altissimo livello che evocava a tratti Philip Lorca di Corcia.




Philip CHANCEL, in un lavoro durato 15 anni, ha esplorato le aree più sensibili del mondo per studiare e documentare i sintomi più evidenti del nostro declino, e mostrandoci in maniera inequivocabile i segni del prossimo, possibile, disastro.




Se Chancel si muove definendo zone geografiche sensibili, Mohamed BOURISSA esplora in maniera multimediale il libero scambio di merci. Evidenziando i ricchi “compratori”, coloro che “producono merce” nelle parti povere del mondo, ed i “disoccupati”, esercito invisibile che emerge solo se si sta usando un applicazione sul proprio smartphone. La mostra è stata allestita, non a caso, all'interno del MONOPRIX, un supermercato alla periferia di Arles.






Spettacolare l’installazione del lavoro di ANONYMOUS PROJECT, che seguendo i dettami dell’era post-fotografica, recupera immagini di autori anonimi per ricreare ambienti e sensazioni della vita degli anni ’50 e ’60. Momenti in cui si pensava ad un futuro prospero e felice, non di certo distopico come quello che stiamo vivendo.



Se queste opere, perché non posso chiamarle differentemente, mi hanno affascinato e colpito, le restanti hanno comunque avviato processi di pensiero, confronto e curiosità. Il numero delle mostre è sicuramente elevato e la settimana a disposizione non ha potuto permettere di vedere tutto, ma solo la parte principale de “Les Rencontres”.

Assieme alle esposizioni principali, dopo la Stazione, nello spazio Ground Control, i premi “Louis Roeder per le gallerie emergenti” ci ha introdotto a 10 selezioni di altissimo livello con giovani e sconosciuti autori che hanno presentato progetti personali, sociali, di indagine di qualità davvero superiore. Fra tutti il lavoro di Shinji Nagabe “Banana Republic” e JJ Levine “Family”.

Una retrospettiva sui 50 anni passati del festival ha creato la giusta connessione con il presente, unica pecca che nello spazio della chiesa “des trinitaires” (ma non solo in quello) il caldo era insopportabile. Pochi condizionatori e qualche ventilatore in molti spazi hanno sacrificato le visite e nei giorni più caldi, reso la visione di alcune mostre veramente impegnativa.





Nello spazio Mistral dedicato agli editori, non di meno allestito in un piazzale assolato, la permanenza è stata impegnativa ma nonostante tutto, vista la presenza di amici, vecchi e nuovi ci siamo trattenuti li per un bel po', con piacere. Possiamo dire che siamo stati fortunati ad avere un chiosco che spillava birra fresca molto vicino. Ritengo che come servizio di emergenza avrebbe dovuto essere più diffuso, noi ne abbiamo usufruito parecchio. Sia mai, per questioni di prevenzione della salute personale.

Una applicazione da scaricare gratuitamente nel telefono ci teneva costantemente informati degli eventi, le call, le conferenze, e gli eventi serali nei vari spazi della città.
Alla fine le considerazioni finali al rientro sono state più che positive, assieme agli spazi che prevedevano un recupero di progetti fotografici del '900 come quello sulle invenzioni, a volte molto bislacche, questa nuova ventata di aria fresca (solo fotografica) ci ha rinfrancato e caricato.
Se non fosse che nell’hotel dove ho soggiornato, non andava il condizionatore per 4 notti su 5, tutto sarebbe stato da catalogare come ottimo.
Ma come si sà non tutto fila sempre liscio.
Mi accontento ben volentieri.


Qui troverete il sito ufficiale del festival



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