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Del Totenburg di Quero Vas

date » 16-08-2021

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tags » Totenburg, Quero, Vas, Tarantino, Quentin, Vincenzo, Agostini, Montagna, Nazismo,

Del Totenburg o Castello dei morti di Quero Vas.



Sto leggendo da qualche giorno un libro molto denso ed interessante ("La montagna di Quentin" di Vincenzo Agostini) che ragiona su molti aspetti del fascismo e del nazismo, partendo da un film (e da una scena in specifico) del film “Bastardi senza Gloria” di Quentin Tarantino.
Un modo per ragionare su di alcuni aspetti della cinematografia Tarantiniana, densa di cultura e di citazioni nascoste, e prenderla come base per un ragionamento sulle autocrazie , le loro componenti, le loro ideologie.
Partendo da digressioni sulle tipologie e la psicologia del “maschio fascista “, ancora attualissime peraltro, e molte altre disquisizioni su come il fascismo non sia un movimento politico ma uno stato umorale dell’essere umano, sono rimasto affascinato dalla storia del Totenburg di Quero Vas.
Posizionato in luogo strategico per la visione del territorio circostante, questo edificio composto da blocchi in porfido provenienti dal Passo Rolle, deve la sua singolarità al colore delle pietre di un rosso cupo che ricordano il colore del sangue.
Creato dall’architetto Robert Tishler nel 1939 il “Castello dei morti” o Totenburg veniva inaugurato alla presenza di gran parte della Wehrmacht e rappresentanze delle SS e del Reich per ricordare i resti di 3461 soldati tedeschi periti li nella prima guerra mondiale, dove la ridotta era il punto avanzato di una linea di attacco dell'esercito Austro-Tedesco.
Da li a poco sarebbe successo il disastro mondiale che tutti noi conosciamo, ma in quel specifico caso perfino il Generale Augusto Grassi vide in questa costruzione dei significati "evidentemente ostili".



Negli ultimi decenni ha perso il suo appellativo iniziale, e viene chiamato (nelle indicazioni stradali) solo monumento commemorativo, o cimitero tedesco. Una monumento ben visibile sul Col’ Maor, che spicca tra la vegetazione e gli abitati, ma un architettura cosi, carica di simbolismi, era segno di una sicura originaria intenzione di ri-appropriazione di un suolo che si rivendicava e si sognava diventasse proprietà.
Ad oggi, rimane un baluardo, pressoché sconosciuto ai più. Ma di enorme impatto per chi lo visita. I simboli del fasto nazista sono stati cancellati e rimpiazzati da più benevole croci, ma un aquila resta ancora, anche se la svastica che artiglia è stata cancellata.


Porta alla riflessione la stanza ricavata al centro del monumento, a cui si ha accesso tramite un corridoio poco illuminato, che costringe gli occhi ad abituarsi (non facilmente) e permettere cosi di avanzare con sicurezza.
Al centro della stanza, sulla quale sovrasta un oculo a fornire luce proprio nel punto centrale dove il "Blutaltar", l'altare del sangue, si erge nero e solenne, sorvegliato su ogni parete da soldati germanici che più che difenderlo sembrano pensosi e raccolti a capire il senso degli accadimenti e del tempo.



Il luogo incute timore ma allo stesso tempo porta a riflettere sul senso delle guerre e sui simboli del potere.
Vi suggerisco la lettura del libro “La montagna di Quentin” di Vincenzo Agostini, una lettura ricca e riflessiva su molti aspetti storici e psicologici delle dittature, con approfondimenti nel campo del cinema, dell’architettura e della montagna.





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Progetto "Ipogei di Ventotene" Aprile 2018

date » 24-04-2018 14:10

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tags » ventotene, speleologia, fotografia, grotte, arte, giovanni cecchinato, grana, isola, pontine, Roma, Lazio, archeologia,

Al venerdì prendiamo la strada di Formia, insieme a Steve ed a Maurizio, il nostro riferimento speleologico.
Maurizio è colui che ha scoperto le cavità che andremo a documentare. Grazie all’unione delle idee e delle conoscenze tra Maurizio e Steve nasce questo progetto che l’Amministrazione dell’isola di Ventotene ha preso in considerazione.
La macchina corre verso sud, ma la musica di Steve si lancia più a sud-est.
L’aliscafo alle 3 del pomeriggio ci porta velocemente verso Ventotene, ormeggiamo dopo circa un ora e subito dopo cominciamo a smistarci nei rispettivi alloggi.
Verso le 5 andiamo a piedi verso il sito ad effettuare una perlustrazione.
La situazione non è pericolosa ma neanche tanto sicura, non è semplice e non è veloce.
Sopra ai due ipogei è stata costruita una casa, le cui sporgenze sono precarie.





L’enorme buco antistante all'abitazione permette di individuare tre aperture; la centrale, quella più grande, è di sicuro il condotto di aerazione, la più piccola quello che resta del punto di accesso.
Passiamo parte del tempo a cercare di capire come organizzarci tra i due gruppi di lavoro; io e Steve cercheremo di fotografare (nel buio) ; Marco, Ilaria e Anna tenteranno di portare giù un laser-scan e creeranno, tramite dei target di riferimento, una visione matematica delle due cavità.
Il giorno dopo ci si alza presto e alle 8 si è già operativi e pronti ad andare nel luogo definito.
Maurizio prepara gli imbraghi e non senza qualche difficoltà ci caliamo fino al livello base di entrata dove poi verranno calate anche tutte le attrezzature.



I ragazzi del rilevamento laser arrivano, l’adrenalina sale e fa dimenticare ogni problema e, decisi, ci apprestiamo a scendere.
Vado avanti io, in avanscoperta e mi calo per primo nel pertugio di entrata.
E’ ostruito da una piccola frana, il che mi crea qualche difficoltà.
Ma dopo un po di lavoro sgomberiamo il passaggio.




Arrivo fino al confluire delle due cavità e lo spettacolo che mi trovo davanti non è dei più edificanti.
Data l’altezza delle due cavità di circa 5/6 mt, che si dipartono dall’ingresso come in una “L”, una montagna di rifiuti arriva quasi fino al soffitto e scende in forma conica verso i pavimenti, per forse 10 mt.
Probabilmente per un periodo, non proprio corto, di anni, si è gettato a dismisura in quel buco di tutto.
Nessuno ha mai riferito di nulla.





Il mio problema fotografico sarà quello di isolare quello che rimane libero dai rifiuti e dovrà permettere una identificazione del luogo.
Dovrò cercare di produrre una buona immagine, aiutato dalla luce di un faretto da 1000w, assoggettato però alla mancanza di corrente, che va’ e viene.
Ma se la fotografia è l’arte del risolvere, in questo frangente se ne avrà la più palese dimostrazione.
Mi sono velocemente accorto che tutta la ricerca iconografica fatta in queste ultime settimane può altrettanto velocemente essere dimenticata.
Dunque, forte concentrazione sul come si potesse portare a casa il minimo indispensabile.
Definiti i punti di interesse ci siamo messi al lavoro e nel giro di un paio d’ore siamo riusciti a definire qualcosa, nella prima zona di lavoro, mentre Marco (l'ingegnere del laser-scan) lavora nell’altra.
Fatta una pausa all’aria aperta ci sostituiamo di posizioni e mi appresto a fotografare li dove i segni della lavorazione della grotta si fanno più evidenti.



Arrivato il tardo pomeriggio, completati tutti i doveri siamo usciti "a riveder le stelle".
Aspetto di non poco conto che rallegra di colpo tutti è la cena in serata al “Giardino”, noto locale dell'isola.

Tecnicamente l’esame fotografico l’ho intrapreso definendo tre punti di ripresa nei quali ho usato la mia Arca Swiss con un dorso Phase One IQ160, messa su cavalletto.
Ho ottenuto delle immagini con una risoluzione di 8900x6700 px c/a utilizzabili a 300 dpi per una base di stampa di 76x57 cm (teorico negativo di base). Ho lavorato cercando di restare nella zona dei 400 ISO e con diaframma chiuso a F16.
Negli altri approcci, quelli della ricerca dei dettagli, ho utilizzato la mia Leica M 262 ed ho lavorato a mano libera cercando le particolarità di lavorazione delle cavità facendomi aiutare con un faretto alogeno da 1000w.

Qui la galleria con il lavoro prodotto.

Spero il piccolo resoconto possa essere di aiuto e mi auguro che questo progetto sia di ampio respiro e porti a dei risultati positivi e alla definizione del progetto finale.
Vi prego di scusarmi per la scarsa bravura nello redigere questo piccolo racconto.


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Lo Sguardo e l'Ombelico Seconda Edizione

date » 05-12-2017 11:06

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tags » Sguardo, Ombelico, Candiani, Bollettino, Fotografia, Incontri, Rassegna, Cultura,

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05/12/17
BOLLETTINO DAL FRONTE OPPOSTO

Nel passato ciclo di incontri de "Lo Sguardo e l'Ombelico" ci siamo interrogati sulla figura del fotografo professionista, e abbiamo sentito le idee, le esperienze e le impressioni sulla fotografia odierna da parte di Efrem Raimondi, Settimio Benedusi e Massimo Siragusa. Dei professionisti di spessore nel panorama nazionale che ci hanno illustrato le sensazioni di chi la fotografia “la fà, la produce”. Abbiamo avuto modo anche di assaporare una piccola parte iniziale di iconografia artistica e non, tramite gli interventi di Fulvio Bortolozzo e Riccardo Caldura.
Dunque un percorso, un tratto di strada nel quale sentendo i resoconti di chi la fotografia “la fà, la produce”, la vive direttamente poiché lavoro quotidiano, ne abbiamo tratto molte impressioni.
Ognuno di noi ha portato a casa, una parola, un concetto, una nuova idea che nel corso di quest’anno ha permesso di maturare la visione della fotografia che aveva.
Ma se questo è un fronte su cui si combattono nuove e vecchie lotte e dilemmi, nonchè terreno di sfide continue, dettate dall’era digitale su di un altro fronte si combatte una battaglia opposta, quella di chi la fotografia “la vede, ne usufruisce, deve giudicarla” bene o male in tutti i suoi molteplici aspetti e utilizzi.
Dunque il fronte opposto è formato da esperti nel ruolo didattico o nell’ambito artistico, da organizzatori di festival o manifestazioni, da critici o bloggers o giornalisti o archivisti o selezionatori o storici. Le valorizzazioni di un insieme di professioni che non vivono sulla produzione della fotografia ma sulla sua definizione derivante dalla ricezione degli stimoli visivi che essa stessa produce; un fronte in cui, da parte di chi si mette in trincea vi è una ricerca di una definizione, dei concetti originari, della valorizzazione o dello scarto della produzione sovrabbondante e spesso caotica e non definita dei nostri giorni. Ecco la squadra dei "Magnifici 5" che ci accompagnerà nel 2018 ad esplorare nuovi territori della fotografia in questo terzo millennio. Un ringraziamento assoluto al Centro Culturale Candiani di Mestre (VE) che ospita e sovrintende la manifestazione ed ai relatori che hanno accettato il mio invito: Riccardo Caldura,​ Laura Manione,​ Luca Panaro,​ Michele Smargiassi,​ Antonello Turchetti.​


A breve il calendario completo con le indicazioni per ogni singolo incontro.
STAY TUNED!!!


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IpoTetico Diario #05 - La pioggia in lontananza

date » 03-09-2017 21:58

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tags » Pioggia, Portegrandi, strada, ricordo, nostalgia, macchine, SS14, poesia, ipotetico, diario,

La pioggia in lontananza
(SS14)
03/09/2017



Sono passati 30 anni da quando tu, eri ad un mese dal compierne 20.
Un giovane ragazzo, di una famiglia normale, in un Italia che, in quell’87, fin troppo voleva crescere e diventare diversa.
Dovevi fare la maturità.
Ed è cosi che con tutti gli amici, della stessa classe, ed i professori avete festeggiato, a Jesolo.
La fine di una avventura.
La fine dell’adolescenza.
E ti eri fatto un regalo speciale … un biglietto per il concerto degli U2. A Modena.
Joshua Tree Tour.
Lo aspettavi da tempo.
Non ci saresti mai andato.
Ti facevi il conto alla rovescia.
Ma non sapevi che lo stavi facendo alla tua vita.
Sei morto senza sapere neanche perchè.
Su quel ponte a Portegrandi, su quel muretto romanico, con i tuoi tre amici.
Avevate accompagnato a San Donà di Piave, un vostro compagno e poi tornavate a casa.
Per quella strada che oggi, ho rifatto dopo molto tempo.
Un componente ha ceduto, voi siete andati a schiantarvi.
Alle 4.03 di quella notte, mi sono svegliato.
(poi qualcuno mi ha detto che, presumibilmente, era l’orario dello schianto)
Alle 4.03 mi sveglio da 30 anni.
E vado a bere un po di acqua.
Quella strada mi ha portato via molto.
Oggi l’ho rifatta.
Forse il tempo.
Forse la pioggia distante.
Forse il blu delle nuvole.
Avevo la macchina fotografica con me.
Sono uscite queste foto.
Parevano essere in sintonia con la mia anima.
Macchine e pioggia in lontananza.
Blu.
Gli inglesi usano il termine blue per indicare la tristezza, la melanconia.
Si …
Blu e pioggia in lontananza.
Ne sento l’odore.
Le macchine corrono, ognuna posseduta da un sacro fuoco di velocità.
Piccoli ordigni.
Inconsapevoli della loro letale potenza.
Hanno tolto il muretto sul ponte.
Messo un guarda-rail.
Tanti semafori.
Rallenta.
Dicono.
Io, avrei voluto fermarti, io, quando ti ho visto per l’ultima volta.
Averti almeno abbracciato forte.
Ho solo potuto comprarti una bara, dopo.
Ti ho vestito nei tuoi resti.
E ti ho pianto in silenzio, ma neanche tanto.
Quando mi ubriacavo fino al vomito.
Oggi ti parlo, e ti ricordo, tramite queste foto.
Almeno non mi faccio del male.
Fratello mio.














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Le domande del bianco e nero. Parte due

date » 08-09-2016 04:22

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Le domande del bianco e nero, ovvero del "meglio avere dubbi che avere solo certezze"
Piccolo vademecum ai quesiti del fotografo proto-cosciente.
Critica un sapiente e lo renderai ancor più sapiente. Critica uno stolto e ti farai un nemico.

Parte Due - Durante lo scatto

Ciao a tutti.

Innanzi tutto vi ringrazio per aver contribuito alla discussione sul tema.

E come mi è stato fatto presente, è vero che tutta questa serie di domande, riguardano molto (ma non solo) i fotografi che scattano in digitale e che convertono in bianco e nero.

Ma ritorniamo al nostro discorso ed ai nostri dubbi ... i miei dubbi ...

Parto con una mia considerazione su ciò che dovrebbe essere e invece non è.

Il mezzo digitale ci fornisce una risposta immediata alla nostra visione sul mondo, il suo controllo, la conoscenza tecnica della macchina fotografica in nostro possesso dovrebbe consentirci un immediata padronanza del momento creativo.

Quindi la fotografia digitale con tutti questi vantaggi, dovrebbe aiutarci ad avere certezze in merito a quello che stiamo fotografando , ma mi domando perchè ciò non accade (e lo vediamo nei risultati) anzi, pare venga inibita la voglia di pensare prima a ciò che stiamo facendo, creando una condizione compulsiva di scatto. Cosi capita che, nonostante le innumerevoli possibilità che ci vengono date sul controllo dell’immagine, per pigrizia o per imperizia, scattiamo senza controllare ciò che stiamo facendo. Allora accade che oltre alla mancanza di pre-visualizzazione, siamo anche deficitari nel controllo tecnico del mezzo che stiamo usando. Quindi una prima domanda fondamentale riguarda la conoscenza tecnica dei mezzi che stiamo usando. (in pratica: conosco come le mie tasche questa macchina che sto usando?)

Un altra considerazione che mi vien da fare è quella che una foto tecnicamente buona , (e qui ribadisco che tutto questo pistolotto ha lo scopo di fare qualche domanda sulla tecnica fotografica), è quella che digitalmente proviene da una buona foto a colori.

Perché se la foto a colori è giusta/buona lo sarà anche postprodotta in bianco e nero. Quindi non sarò esente da una corretta calibrazione del bianco, la gamma dei colori dovrà essere gestita pre-scatto e solo dopo che ciò sarà corretto ed a posto, potremmo avere a disposizione uno scatto da poter convertire felicemente in B&N.

Resta inteso, che non voglio qui addentrarmi profondamente anche nelle tematiche di composizione/contenuto/forma, neppure per ciò che riguarda il contatto od il rapporto che intercorre con il nostro soggetto (sia esso cosa o persona) … tento solo di innestare una forma di pensiero precedente allo scatto che ci aiuti a creare meglio la nostra fotografia finale od il nostro progetto.

A mio avviso lo scatto dovrebbe essere già bello e pensato prima, o cercato e atteso almeno intuendone le forme. E solo nella difficoltà di questo atteggiamento che ritroviamo gli scatti di grandi autori. Questo pensiero riguarda tutta la fotografia e non se stacca mai. Pertanto il nostro bagaglio di conoscenza e di cultura sugli autori e sulla fotografia, non ci deve mai lasciare e ci deve essere sempre di aiuto e fare parte del nostro skill. Così cercando di capire le difficoltà o le domande che gli stessi autori si sono fatti e la loro ricerca delle soluzioni.

Ed ora proviamo a farci le domande inerenti allo scatto.

- Ho letto/percepito tutte le differenze di esposizione che vedo nel mirino?
- Quanti stop ho di differenza tra le alte luci e le basse?
- Le alte luci sono bruciate?
- Le basse sono leggibili?
- Ho letto l’istogramma che deriva dallo scatto?
- Sto facendo l’esposizione giusta?
- Sto inquadrando in maniera corretta?
- Dove ho messo il soggetto? Dov’è il “punctum”?
- Sono certo che l’obiettivo che sto usando sia il più indicato per questa scena?
- Saprò trattare tutte le tonalità che vedo ora a colori?
- Ho fatto un buon ragionamento sul tempo/diaframma? Posso enfatizzare la scena cambiando il rapporto?
- Ricerco il dettaglio o l’enfasi?
- Devo documentare oppure creare una sensazione?
- E’ una ricerca grafica dove allora il contrasto è d’obbligo? (però senza bruciare le alte luci!)

Insomma, non dobbiamo mai fermarci di chiederci qualcosa, sopratutto quando vogliamo creare delle buone immagini.

Che poi, ripeto, questo è un discorso forse più tecnico, se poi parliamo di contesto, forma e messaggio … allora … apriti cielo!

Spesso, fronte di immagini scadenti ma comunque ostentatamente esposte, sentiamo a replica delle scuse sull’atto, o sulla mancanza di quello o dell’altro … La fotografia è l’arte della soluzione, non della scusa … infatti in un detto di J.F.Kennedy si riassume il tutto “Gli uomini vincenti trovano sempre una strada...i perdenti una scusa” …

Vi rimando a questa visione del bianco e nero autoriale (leggetelo bene e con calma) ... che ha anche una enorme carica poetica, l''autore non ha bisogno di presentazioni... e la considerazione principale è: che una brutta fotografia a colori che viene portata in bianco e nero, rimane una brutta fotografia... leggete qui questo bellissimo articolo di blog...

Alla prossima ed ultima riflessione, inerente la postproduzione.

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Fotografia Architettura, “Flash Urbani” uno scritto di Gianfranco Vecchiato


“Flash Urbani” uno scritto di Gianfranco Vecchiato su Evolutio Visio la mostra fotografica di Giovanni Cecchinato

La prima immagine fotografica fissata su lastra fu quella di una Architettura. Anno 1826, autore Joseph Niépce. Una incisione su lastra di peltro utilizzando “bitume di Giudea” su cui si fissò un paesaggio che Niépce vedeva dalla sua terrazza. Qualche anno prima (1810) Johann Wolfgang von Goethe pubblicò le sue ricerche sulla Teoria dei colori, e questo mescolarsi culturale fra studi di Letteratura e Scienza, fecero dire a Goethe che quest’ultima proveniva dalla Poesia. Una simbiosi che plasmò il carattere anche di una nuova forma d’Arte, quella fotografica che per il compositore Arrigo Boito “ nacque da un raggio di luce e da un veleno” . Boito colse nelle fotografie gli elementi estremi della vita e della morte, fissati dal tempo che li delimita e che si aprono allo stupore verso un’altra dimensione. L’istante che veniva fermato dall’immagine non sarebbe stato mai più lo stesso. Da allora la tecnica e la scienza sono progredite in ogni campo ma lo scatto fotografico è determinato dalla decisione di ogni autore di estrarre un immagine da uno specifico contesto con il proprio apporto di differenza espressiva, cromatica, emotiva, sensoriale. Tutti elementi importanti anche nella moderna psicanalisi come mezzo di indagine e di confronto. Ogni luogo rivela sempre, ad una attenta indagine, pregi e virtù, limiti culturali, sfruttamenti economici, disequilibri e qualità. Ed è così che nel campo dell’urbanistica e dell’architettura, un edificio si conquista il suo spazio vitale e che entra nel sistema di relazioni urbane ed ambientali. “Parla” della nostra presenza con modi che si possono leggere da una fotografia. Si può fare una diagnosi, senza la confusione dell’insieme di cui fanno parte, così come guardando una persona se ne può intuire la sofferenza o la gioia.

Il fotografo Giovanni Cecchinato , Autore dei fotogrammi che hanno come soggetto identitario Mestre, ha realizzato in passato un cortometraggio, “Quieto Mare” insieme ad un libro “L’Equazione Possibile” per l’AVAPO, una Associazione di volontariato che si occupa dell’assistenza ai pazienti oncologici nel territorio mestrino.

Questa esperienza lo ha posto davanti alla “nudità” dei sentimenti essenziali. Da cui ne deriva una sorta di scelta anche nel fissare immagini di architetture e paesaggi urbani di Mestre, privi di persone. Il tutto pone degli interrogativi, portando i soggetti materiali ad interrogarsi continuamente “sull’immateriale”. James Hillman (1926/2011), psicanalista junghiano e filosofo americano che dedicò molti studi ai rapporti fra l’Uomo e l’Ambiente, nel saggio “Politica della Bellezza” osservò come molti traumi emotivi fossero dovuti alla incapacità di trasformare le realtà che attraversiamo. Il nostro pensiero sociale sul futuro e la capacità di conservare con le forme il nostro passato, trasformano continuamente in “visioni evolutive” un processo sul quale si manifestano traumi complessi per la cui terapia, Hillman, suggeriva di generare forme d’Arte. “Ciò che appare perduto per le Arti, è proprio quello di cui lo psicologo si occupa: l’Anima.”

Se nella Pittura Metafisica di Giorgio De Chirico l’assenza dell’Uomo si traduce in un archetipo geometrico, nei nostri spazi urbani, il vuoto tormenta un ottundimento psichico tra le relazioni personali. L’elemento estetico come fattore di creatività richiede sempre forme di azione politica. Nell’estetica si trova la parte inconscia della nostra cultura dove il concetto di “bellezza” è entrato in crisi quando è stato ignorato, omesso o considerato secondario rispetto al suo valore economico di mercato. Queste fotografie mostrano una parte della evoluzione edilizia di Mestre; sono frammenti singoli di un racconto complesso e tormentato, per diversi aspetti mai interamente rivelato. Gli abitanti sono dentro o fuori le mura edilizie con le espressioni dell’Anima cercate nei colori, sulle strade e nei giardini, nelle case e tra le ville, che furono. Prima di tutto quello che si vede c’era una diversa identità scomparsa con le demolizioni. Nuove fissità rimandano ad un tempo oggi rigenerato e sostituito, in un processo che non si è ancora fermato, dopo aver arato il campo urbano sottraendogli gran parte delle sue radici . Queste fotografie se paiono rivelare ed accentuare una sensazione di “solitudine”, fanno anche emergere identità tutt’altro che banali. Quando il campo visivo si allarga, il vestito di “modernità” edilizia rivela le sue fragilità, tra edifici incompiuti, altri che paiono “spuri” fra loro. Pensati singolarmente, interrogano una immagine sociale a volte incomprensibile. E dunque quale città rappresentano? Nel vederle si è rafforzata in me la convinzione che il primato della pianificazione urbana prevalga su quello della singola architettura. Tuttavia non sempre è così. Ci sono edifici che raccontano e indicano una Comunità che fatica a ritrovarsi nel suo centro, spaesata dai Centri Commerciali, attraversata da forme di insicurezza sociale, da progetti di riqualificazione rimasti incompiuti, pensati per generare racconti e naviganti su sparsi brani edilizi. Quelle Fotografie in bianco e nero che conservano il fascino aspro della Storia, senza la distrazione del colore, paiono rimandare alle cartoline d’epoca. Ecco gli anni ’60 con lo spingersi in altezza di edifici da via Poerio a piazza Barche, a Corso del Popolo, con il fragile certificato di “modernità” della Mestre industriale, con il caotico costruire decine di migliaia di nuovi alloggi, nuove scuole e una vivace presenza giovanile fatta di una crescente vitalità che la pone ai vertici in Italia. Il giudizio severo su ciò che si generò si interroga sul cosa avvenne senza che la Soprintendenza sollevasse alcun problema. Si entra quindi nella dimensione che lega il passato recente al presente: l’edificio a lato del Palazzo S.Lorenzo sorto nel 1961 il cui progettista fu l’Ingegner Ivanissevich; a lato della Rampa Cavalcavia c’è un’opera del 1956, con le terrazze a punta, evocazioni organiche alla F.L.Wright, dell’architetto E.Venturini. Il discusso edificio dell’architetto e pittore Urbani De Gheltoff in via G.Felisati, che si ispirava a forme plastiche con pareti che in origine erano colorate in blu, rosso e giallo. Il “Palazzo delle Generali” , per molti anni il più alto di Mestre, costruito alla fine degli anni ’60 in Corso del Popolo dall’architetto A.Scattolin. Una arteria pensata come poche, fin dagli anni ’30 come un asse moderno e con un coerente equilibrio formale lungo i suoi lati con portici e altezze uniformi. Ma il retro di quell’edilizia, che quasi mai arriva al valore di “architettura” , era casuale perché si studiava l’ornato solo sulla facciata principale. Da una operazione complessa di riqualificazione urbana ed edilizia, una parte di quel retro è stato mascherato da nuove architetture che si affacciano sul piazzale della Madonna Pellegrina, nel quartiere di Altobello. Una fotografia riprende l’edificio residenziale sorto nel 2012 progettato dall’architetto Carlo Magnani. C’è una casa restaurata, che racconta un tempo in cui era parte di un complesso industriale, quello delle Fornaci da Re ad Altobello. Fu salvata negli anni ’80 dalla demolizione per progetti di edilizia popolare e con ciò arrestando quella cultura che aveva distrutto tante memorie urbane. E’ il simbolo di una svolta culturale, ora restaurata e inserita nella rigenerazione urbana di quell’area. Su un’altro asse stradale che da periferico è divenuto essenziale, via Torino, parallelo alla ferrovia ed al Canal Salso, è in atto una grande trasformazione positiva. La strada si apre con un intervento recente che ha sostituito l’ex sede degli autobus Actv con un progetto misto commerciale, residenziale e direzionale su cui sorge un edificio dal forte carattere simbolico. Più avanti si sviluppa una sede universitaria, con alcuni edifici progettati dagli architetti Giampaolo e Giovanna Mar, che prospettano sull’edificio della Cassa di Risparmio del 1988 fatta dallo studio degli Architetti Bernasconi di Milano. Ci sono l’Hotel Laguna Palace e l’Edificio delle Poste, si innesta viale Ancona, altro asse di scorrimento, su cui si affacciano gli uffici pubblici comunali. Sul Cavalcavia l’edificio denominato Vempa non esiste più perché è in corso la costruzione di un Ostello. Anch’esso è entrato a far parte del passato. In via Giuseppe Verdi c’è un altro edificio singolare, le cui forme circolari e il vano scale inclinato portano la firma dello Studio degli architetti Giovanni Trevisan e Plinio Danieli. Poi si riconoscono un tratto di Riviera Magellano, la Galleria Barcella progettata dell’architetto Antonio Fornasiero, il “provvisorio” mercato stabile di via Fapanni, il ponte pedonale e ciclabile sospeso che collega al Parco di San Giuliano. Dai Grandi Magazzini “Le Barche” si vedono degli edifici residue testimonianze di una città che si raccoglieva tra il suo Castello, Piazza Ferretto e Piazza Barche in un mercato di scambi con Venezia attraverso il Canal Salso ed il Teatro Balbi, demolito negli anni dell’Ottocento in cui Goethe scrisse le sue teorie e si inventava la fotografia. Se è stata una città orfana Mestre, di cui Luigi Brunello descrisse i traumi nel libro “Gli anni del saccheggio”, è anche una città nuova. Una gran parte del suo territorio costruito ha meno di 50 anni. La vita ed il tempo continuano a seminare ed a costruire proposte, pensieri, confronti, in un caleidoscopio che è parte della vita quotidiana. Quando Charles Dickens visitò l’Italia a metà Ottocento descrisse da cronista luoghi che erano pieni di grandi contrasti. Edifici maestosi, simbolo e retaggio di un glorioso passato erano mescolati accanto ad una diffusa desolazione urbana. Tra questi antichi monumenti e quelle strade Egli annotò che scorreva una vita quotidiana decadente e però attiva e vivace. Nel tratteggiare i costumi popolari, le feste, le tradizioni e l’esuberanza di “uno spettacolo caotico simile ad una “lanterna magica”, Dickens ne rimase incuriosito ed affascinato . Quella energia popolare presente nella storia in formazione e sui territori è la parte del capitolo nascosto che Giovanni Cecchinato lascia alla profonda riflessione sul nostro futuro.

Gianfranco Vecchiato

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